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Amnesty International Diritti Umani e Polizia in Italia

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Presentazione sul tema: "Amnesty International Diritti Umani e Polizia in Italia"— Transcript della presentazione:

1 Amnesty International Diritti Umani e Polizia in Italia
Amnesty International è una comunità globale che si occupa in modo specifico della promozione e della tutela dei diritti umani in tutto il mondo. Spesso interveniamo su violazioni che avvengono molto lontane dal nostro Paese, anzi per un lungo periodo di tempo le sezioni nazionali di Amnesty International non intervenivano sugli abusi perpetrati nel proprio Paese, per mantenere un certo distacco e una completa indipendenza dalle istituzioni e dal potere. Ormai da diversi anni, pur non avendo cessato di guardare lontano, non trascuriamo le violazioni dei diritti umani che sono dietro l’angolo e portiamo avanti un intenso lavoro per i diritti umani anche in Italia. A partire dal 2011 abbiamo messo la tutela dei diritti umani in Italia al centro di appelli, azioni urgenti, e campagne. Ci occupiamo soprattutto del tema della discriminazione dei Rom e delle persone LGBTQI, delle violazioni dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo e delle denunce relative all’uso sproporzionato della forza e delle armi da parte delle forze di polizia. Sappiamo che per ottenere dei cambiamenti concreti e visibili è necessario un chiaro sostegno popolare, fatto di firme, volti e voci, e per ottenerlo è indispensabile veicolare una cultura diffusa che, a partire dalla conoscenza di cosa accade nel nostro Paese spinga le persone a chiedere alle istituzioni di modificare le scelte che provocano violazioni e sofferenza. In questo senso l’EDU è fondamentale nell’esperienza scolastica degli studenti, perché ha l’ambizione di creare una cultura diffusa che prevenga le violazioni, di fare crescere cittadini attivi che assumano atteggiamenti e comportamenti che li conducano al rispetto di se stessi e degli altri a prescindere da qualunque distinzione di etnia, di religione, di fede politica, di orientamento sessuale o identità di genere. E’ la cultura che detta le scelte che i cittadini sono in grado di sostenere nella vita di ogni giorno, la scuola è il luogo in cui una comunità trasferisce cultura alle giovani generazioni, è dunque il luogo più importante in cui portare il nostro messaggio di tutela e promozione dei diritti umani – a cura di Emanuela Massa Responsabile E.D.U. Circoscrizione Liguria -

2 Amnesty International
Sicurezza - Ordine Pubblico – Diritti Umani Forze di polizia in Italia Uso della forza e delle armi Trasparenza e responsabilità Tortura Cosa succede in Italia? Torture e altri maltrattamenti Processi G8 Genova 2001 Uccisioni Illegali Cosa chiede Amnesty International ? 2 2

3 ATTORI CHIAVE NELLA PROTEZIONE DEI DDUU :
FORZE DI POLIZIA ATTORI CHIAVE NELLA PROTEZIONE DEI DDUU : Prevengono il crimine, mantengono l’ordine pubblico e proteggono la popolazione; In particolare: ricevono denunce sulle violazioni dei diritti umani svolgono indagini garantiscono il corretto svolgimento delle manifestazioni, proteggendo chi vi partecipa da minacce e violenze Le forze di polizia sono attori chiave nella protezione dei diritti umani in un paese: hanno, tra le proprie funzioni, quelle di ricevere denunce sulle violazioni dei diritti umani, svolgere le indagini e garantire il corretto svolgimento delle manifestazioni, proteggendo chi vi partecipa da minacce e violenze. Perché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e svolto nella piena fiducia di tutti, sono essenziali il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle responsabilità e una complessiva trasparenza 3

4 SICUREZZA Presupposto per il godimento dei diritti
umani. Vivere in sicurezza significa vivere protetti dal pericolo e dalla paura DUDU : Art.3 ogni individuo ha diritto alla vita alla libertà e alla sicurezza della propria persona Preambolo Patto Internazionale per i Diritti Civili e Politici: L’ideale dell’essere umano libero, [ ] può essere perseguito soltanto se vengono create condizioni che permettano ad ognuno di godere dei propri diritti civili, politici e dei propri diritti economici, sociali e culturali. Una di queste condizioni è un ambiente sano e sicuro, in cui ci sia “ordine”. 4 4

5 SICUREZZA Chi garantisce la sicurezza: Stato Societa’ civile
Una società SICURA è una società che mette al centro delle proprie politiche la TUTELA dei DIRITTI UMANI Obiettivo a cui concorrono più soggetti con ruoli diversi: STATO – VIGILA sull’operato delle forze di polizia, creando le condizioni per cui possa operare efficacemente e assicurando il rispetto degli standard internazionali sui diritti umani: PREVIENE LE VIOLAZIONI ASSICURA INDAGINI rapide ed approfondite quando emergono violazioni GARANTISCE PROCESSI EQUI, tempestivi per L’ACCERTAMENTO DELLE RESPONSABILITA’ e L’INDENNIZZO alle vittime SOCIETA’ CIVILE – INCORAGGIA IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI da parte delle forze di Polizia, è consapevole della realtà in cui esse operano e della complessità della loro azione Eppure continua ad accadere che, in nome della sicurezza collettiva, i diritti umani vengano sospesi, limitati, annullati 5 5

6 OBIETTIVO DELL’ORDINE PUBBLICO E’
COSTITUZIONALE Condizione che la polizia ha il dovere di mantenere per garantire la sicurezza dei cittadini DUDU : Art.28 ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati L’ordine deve basarsi quindi sui principi dello Stato di diritto, della non arbitrarietà e della prevedibilità delle regole. Fuori dall’ambito delle leggi, la garanzia dei diritti inviolabili sarebbe illusoria per tutti. Nell’ordinamento italiano, l’ordine pubblico costituzionale è quella condizione che consente a tutti il pieno godimento dei diritti inviolabili dell’uomo. La sicurezza pubblica, nella nostra Repubblica, coincide con quella situazione in cui ai cittadini è assicurato il pacifico esercizio dei diritti e delle libertà sancite dalla Costituzione. L’ordine pubblico costituzionale coincide con l’ordinato vivere civile. Quindi l’esercizio dei diritti fondamentali è limitato dall’esigenza di garantire a tutti una tollerabile convivenza. OBIETTIVO DELL’ORDINE PUBBLICO E’ L’ESSERE UMANO LIBERO 6 6

7 ORDINE IDEOLOGICO Protezione dell’identità dello Stato, utilizzato per reprimere il dissenso, si lega a situazioni di abuso e di mancanza di democrazia La pubblica sicurezza coincide con l’esistenza e l’integrità della Nazione. Per difendere questa integrità è permessa, anzi doverosa, qualunque limitazione delle libertà dei singoli Durante l’Italia Fascista, il concetto di ordine coincideva con i principi e gli ideali fondanti l’identità della nazione. L’ordine aveva un valore assoluto e si riteneva offeso anche dalla semplice espressione del dissenso politico o ideologico. Al centro non c’erano i diritti e le libertà dei cittadini ma l’integrità dello Stato che aveva un valore assoluto e preminente TUTTO NELLO STATO, NIENTE AL DI FUORI DELLO STATO, NULLA CONTRO LO STATO Mussolini , Discorso alla Scala di Milano, 1925 7 7

8 OBBLIGHI CHE DERIVANO DAL DIRITTO INTERNAZIONALE
L’Italia deve rispettare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, come stabilito dalla Costituzione (art.10. art.11. art.117) UNA LEGGE ITALIANA IN CONTRASTO CON GLI OBBLIGHI INTERNAZIONALI È INCOSTITUZIONALE L’ITALIA E GLI OBBLIGHI CHE DERIVANO DAL DIRITTO INTERNAZIONALE L’Italia è obbligata al rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale, come stabilito dalla costituzione agli articoli Quindi le regole che derivano dalle Convenzioni internazionali, rilevanti per il ruolo e l’operato delle forze di polizia, come ad esempio la Convenzione contro la Tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, sono vincolanti per l’Italia 10: L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici. 11: L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. 117: La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti materie: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull'istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno; s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali. Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza. La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive. La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni. Nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato. Camera e Senato devono attuare gli obblighi internazionali attraverso l’approvazione di normative che li rendano operativi nell’ordinamento nazionale. Una legge Italiana in contrasto con gli obblighi internazionali è INCOSTITUZIONALE, per violazione del rispetto imposto dall’art.117 DA QUESTO SI DEDUCE CHE LE REGOLE CHE DERIVANO DALLE CONVENZIONI INTERNAZIONALI, RILEVANTI PER IL RUOLO E L’OPERATO DELLE FORZE DI POLIZIA, COME AD ESEMPIO LA CONVENZIONE CONTRO LA TORTURA E LE ALTRE PENE O TRATTAMENTI CRUDELI, INUMANI E DEGRADANTI, SONO VINCOLANTI PER L’ITALIA 8

9 SICUREZZA E DIRITTI SICUREZZA e DIRITTI UMANI
NON SONO INTERESSI IN CONTRASTO NON CI SONO DIRITTI SENZA SICUREZZA NON ESISTE VERA SICUREZZA FUORI DALLA GARANZIA DEI DIRITTI UMANI Comprendere questo è essenziale per discutere del ruolo della polizia, del suo operato e dei limiti che incontra quando si confronta con l’esigenza di garantire i dd uu, in particolare per quanto riguarda l’uso della forza e delle armi. Il concetto di sicurezza ricorre nell’ordinamento costituzionale italiano sia come LIMITE all’esercizio di specifiche libertà (di domicilio art 14 Costituzione, di circolazione art 16, di riunione art 17, di iniziativa economica privata art 41) , sia come compito dello Stato di garantire l’ORDINE PUBBLICO. E’ compito della Repubblica garantire il mantenimento e promuovere l’ordinato vivere civile, che è la condizione necessaria per l’esercizio dei diritti fondamentali. Nel nostro ordinamento il concetto di sicurezza ricorre come: - limite a specifiche libertà - obiettivo dell’ordine pubblico 9 9

10 FORZE DI POLIZIA IN ITALIA
Ex lege 121 1/4/1981 POLIZIA DI STATO: dipende dal Ministero dell’Interno, ordinamento civile, svolge funzioni di polizia giudiziaria, amministrativa e di prevenzione ARMA dei CARABINIERI: dipende dal Ministero della Difesa, ordinamento militare, svolge funzioni di polizia giudiziaria, amministrativa, di prevenzione, stradale. E’ forza armata con funzioni di polizia giudiziaria e militare GUARDIA DI FINANZA: dipende dal Ministero dell’Economia e Finanza, ordinamento militare, persegue reati valutari, finanziari, tributari, svolge funzioni di polizia giudiziaria, doganale, militare e tributaria. E’ il più antico corpo militare della Repubblica. Quest’attività è affidata, per legge, alle forze di polizia nazionali e a partner istituzionali con ruoli, responsabilità e poteri distinti. Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria, Guardia forestale dello Stato e polizie locali: polizia municipale che dipende dai Comuni ed è rappresentata dalla figura del vigile urbano. La titolarità a disporre della forza pubblica, su richiesta del Sindaco, è del Prefetto. Polizia provinciale che dipende dall’amministrazione provinciale I funzionari e gli agenti di polizia hanno l’obbligo, nell’esercitare le prerogative necessarie al mantenimento dell’ordine pubblico, di rispettare i dd uu, il cui godimento è il fine ultimo della loro azione. 10 10

11 FORZE DI POLIZIA IN ITALIA
Ex lege 121 1/4/1981 POLIZIA PENITENZIARIA: dipende dal Ministero della Giustizia, ordinamento civile, si occupa di persone private della libertà personale, di strutture carcerarie e svolge funzioni di polizia giudiziaria e di prevenzione. CORPO FORESTALE DELLO STATO: dipende dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, ordinamento civile, svolge funzioni di polizia giudiziaria, concorre a garantire la pubblica sicurezza, l’ordine e il pubblico soccorso. E’ specializzata nella tutela del patrimonio paesaggistico, e nella repressione dei reati in campo ambientale e agro-alimentare 11 11

12 USO DELLA FORZA E DELLE ARMI
PER GARANTIRE LA SICUREZZA, LA POLIZIA PUÒ FARE USO DELLA FORZA E DELLE ARMI Norme internazionali pongono limiti precisi al loro uso : L’USO DELLA FORZA deve rispettare i principi di: legalità, necessità, proporzionalità gradualità L’USO DELLE ARMI deve costituire l’extrema ratio, Gli ufficiali di polizia dovranno graduare l’uso della forza e delle armi in modo proporzionato allo scopo da raggiungere USO DELLA FORZA E DELLE ARMI: Per garantire la sicurezza, la polizia può restringere i diritti delle persone e, in alcune situazioni, può fare uso della forza e delle armi. La polizia è quindi depositaria di poteri importanti che, se esercitati indebitamente, possono creare gravi situazioni di violazione dei dduu. Per questo le norme internazionali stabiliscono LIMITI PRECISI a tali POTERI La polizia è autorizzata a usare la forza in alcune situazioni, come quando effettua arresti o per legittima difesa. Nel nostro Codice Penale, all’art.53, si dice che “il pubblico ufficiale, che al fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio, fa uso o ordina di far uso delle armi, o di un altro mezzo di coazione fisica, non è punibile, quando vi sia la necessità di respingere una violenza, o vincere una resistenza, ovvero di impedire determinati specifici delitti. L’uso delle armi deve costituire l’extrema ratio, inoltre l’uso della forza deve rispettare i principi di legalità, necessità, proporzionalità e gradualità. Significa che l’intervento coercitivo è giustificato solo quando strettamente necessario (ad esempio se per effettuare un arresto non è necessaria la forza, non si dovrà usare nessun mezzo coercitivo, se invece occorre, si dovrà usare il metodo meno lesivo per ottenere il risultato). Gli ufficiali di polizia dovranno graduare l’uso della forza e delle armi in modo proporzionato allo scopo da raggiungere. La possibilità di sparare al corpo di una persona è giustificabile solo se sono in gioco interessi di valore assoluto, come proteggere la vita umana. In tutti gli altri casi, l’ufficiale sparerà in aria o ai lati del soggetto, a scopo intimidatorio. 12 12

13 PRINCIPI ONU: USO DELLA FORZA E DELLE ARMI
Dotare le forze dell’ordine di un’ampia gamma di mezzi, armi e munizioni, che permettano l’uso differenziato delle forza Adottare normative sull’uso della forza e delle armi che specifichino quanto segue: le armi da fuoco vanno usate solo in circostanze appropriate, per minimizzare il rischio armi e munizioni, che provocano ferite inutili, vanno proibite la selezione delle forze dell’ordine deve avvenire secondo procedure adeguate, capaci di valutare le qualità morali e i requisiti psicologici e fisici degli aspiranti. Inoltre va garantita una formazione costante e adeguata La formazione delle forze di polizia deve prestare particolare attenzione alle questioni di etica e di rispetto dei dduu Recentemente l’Italia è stata condannata dalla corte europea dei diritti umani per violazione del diritto alla vita (art 2 Convenzione) nel caso Alikaj e altri contro l’Italia del 29/3/2011, perché la Corte ha stabilito che il comportamento imprudente e letale dell’agente, durante un controllo autostradale, sarebbe da addebitare ANCHE allo stato italiano, che non ha adottato normative specifiche sull’uso della forza e delle armi da fuoco contro le persone, da parte delle forze di polizia. Secondo l’art.2 della Convenzione europea dei dd uu, gli stati devono predisporre un quadro giuridico che, per proteggere il diritto alla vita, definisca in modo appropriato le circostanze in cui i rappresentanti della legge possono ricorrere alla forza o all’uso delle armi da fuoco. L’uso della forza da parte degli agenti di polizia contro la vita di una persona può giustificarsi, ai sensi dell’articolo 2 § 2 lett. b) della Convenzione, quando sia assolutamente necessario e strettamente proporzionato rispetto alle circostanze concrete. Non è legittima, pertanto, la lesione del diritto alla vita di una persona che non era pericolosa, non aveva commesso alcuna infrazione di carattere violento né costituiva minaccia per gli agenti stessi. L’obbligo positivo di cui all’art. 2 impone, nel suo contenuto procedurale, agli Stati contraenti l’adozione di un quadro giuridico e regolamentare idoneo a tutelare il diritto alla vita. Tale obbligo deve reputarsi violato quando non sia svolta un’indagine effettiva, celere ed indipendente al fine di verificare se vi fosse l’assoluta necessità per l’agente di polizia di fare uso dell’arma da fuoco. Quando la lesione del diritto alla vita deriva dall’azione di un agente di polizia s’impone ai giudici nazionali una celerità e diligenza tale da reputare, a giudizio della Corte Europea, inammissibile la dichiarazione di prescrizione del reato. ALIKAJ ED ALTRI C. ITALIA Rubricato in: Articolo 2 - Diritto alla Vita | Vita | Uso della forza | Assolutamente necessario | Indagini effettive Tipo di documento: Sentenza (Merito ed Equa Soddisfazione) Organo giudicante: Camera Stato convenuto: Italia Numero ricorso: 47357/08 Data della sentenza:  Articoli: 2 ; 2-2 ; 2-2-b ; 41 Opinioni separate: No Diritto italiano rilevante: artt. 4, 52, 53, 54 c.p.; art. 157 § 1 l. n. 251/05 Fatto:La notte tra il 2 e il 3 dicembre 1997, Julian Alikaj e altri tre giovani albanesi stavano viaggiando sull’autostrada tra Milano e Bergamo, quando una macchina della Polizia ordinava loro di fermarsi. I quattro giovani arrestavano l’auto ma, scavalcato il guardrail, fuggivano in una strada sterrata in pendenza, che costeggiava l’autostrada. I poliziotti sparavano, allora, due colpi di fuoco in aria a titolo d’avvertimento e l’agente A.R. si lanciava all’inseguimento dei giovani sparando un pallottola che colpiva Julian Alikaj al cuore. Il giovane moriva sul colpo. A seguito delle indagini svolte, la Procura rinviava a giudizio l’agente A.R. per omicidio volontario. Ma il Giudice dell’udienza preliminare emetteva sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato, ritenendo che gli elementi di prova non consentissero di affermare che A.R. avesse ucciso intenzionalmente la vittima; piuttosto, dimostravano che l’agente era caduto e che il colpo era partito accidentalmente. Il Pubblico Ministero ricorreva in appello, sostenendo in particolare che la circostanza che intercorressero trenta metri tra A.R. e il giovane Alikaj, come emergeva dalla perizia balistica, rendeva impossibile l’ipotesi della caduta accidentale. La Corte d’appello di Brescia accoglieva parzialmente l’impugnazione e rinviava A.R. a giudizio dinanzi al Tribunale di Bergamo per omicidio colposo. Il Tribunale, reputando che gli elementi raccolti deponevano nel senso di un atto intenzionale e non colposo, si dichiarava incompetente poiché il reato rientrava nella competenza della Corte d’Assise di Bergamo, al cui Pubblico Ministero venivano trasmessi gli atti. Sulla base di un’ulteriore qualificazione del fatto da parte del PM, il GUP emetteva decreto che dispone il giudizio per omicidio volontario a carico di A.R.. La parte civile ricorreva in Cassazione evidenziando la contraddittorietà tra la decisione del Tribunale di Bergamo, dichiaratosi incompetente perché trattavasi di omicidio doloso, e il GUP che disponeva il giudizio per omicidio colposo. La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e rinviava A.R. al giudizio innanzi la Corte d’Assise per omicidio volontario. La Corte d’Assise, con provvedimento del 20 aprile 2006, riqualificava il reato in omicidio colposo ritenendo che A.R. avesse agito imprudentemente nell’utilizzare la pistola, atteso che i quattro giovani albanesi non avevano commesso alcun violento delitto, né erano pericolosi e non costituivano una minaccia per i poliziotti. Inoltre, gli agenti scoprivano soltanto dopo l’accaduto che la vettura su cui i quattro viaggiavano era stata rubata. Ciò nonostante, la Corte, ritenute sussistenti le circostanze attenuanti della giovane età dell’imputato e dell’appartenenza al corpo di polizia, emetteva sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione a favore di A.R.. Il Pubblico Ministero ricorreva in Cassazione sostenendo che la Corte d’Assise non aveva tenuto conto della circostanza aggravante del delitto commesso durante l’esercizio delle funzioni di poliziotto. Ma la Corte di Cassazione, con una decisione del 20 marzo 2008, dichiarava il ricorso inammissibile, ritenendo che la Corte d’Assise avesse motivato in modo logico e corretto su tutti i punti della vicenda. Il 12 settembre 2008, la sig.ra Antoneta Alikaj, il sig. Bejko Alikaj, le sig.re Vojsava Alikaj e Anita Alikaj adivano la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando una violazione dell’articolo 2 e dell’articolo 6§3 lett. d) della Convenzione. 13 13

14 TRASPARENZA E RESPONSABILITA’
CHI GIUDICA SE IL GRADO DI FORZA USATO È PROPORZIONATO ALLA SITUAZIONE? E’ essenziale che la pratica di polizia sia sottoposta a super visioni e valutazioni esterne e che la polizia sia chiamata a rendere conto del proprio operato. E’ importante creare ed avvalersi di istituzioni indipendenti di controllo e monitoraggio dei dd.uu nei luoghi di detenzione, anche con scopo preventivo (es OPCAT) TRASPARENZA E RESPONSABILITA’ DELLE FORZE DI POLIZIA Valutare quale sia il grado di forza proporzionato da usare, non è sempre facile, specie per un agente coinvolto. E’ necessaria esperienza e una formazione adeguata, ma è essenziale che la pratica di polizia sia sottoposta a supervisioni e valutazioni esterne e che la polizia sia chiamata a rendere conto del proprio operato Perché controllato e controllore non coincidano, è importante creare ed avvalersi di ISTITUZIONI INDIPENDENTI DI CONTROLLO E MONITORAGGIO, anche con scopo preventivo. Un esempio è il meccanismo di controllo dei luoghi di detenzione, previsto dal protocollo opzionale della Convenzione contro la tortura (OPCAT) dell’ONU, firmato dall’Italia il 20 agosto 2003 e ratificato solo il 3/4/2013. L’OPCAT istituisce un sistema a “doppio pilastro” di ispezione e monitoraggio dei luoghi di detenzione volto a prevenire la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti: a livello internazionale, viene istituito un nuovo organismo, il Sottocomitato delle Nazioni Unite sulla prevenzione della tortura; a livello nazionale, gli Stati parte hanno l’obbligo di creare, entro un anno dalla ratifica del Protocollo, un apposito organismo indipendente, il c.d. Meccanismo nazionale di prevenzione (NPM). La mancanza di queste istituzioni determinano una sostanziale impunità per gli agenti di polizia accusati di gravi violazioni dei dd uu e creano un contesto sfavorevole al riconoscimento sociale della polizia, come attore centrale nella protezione dei dd uu. 14

15 TORTURA un’emergenza internazionale
La tortura è proibita dalle costituzioni, dai codici penali, dalle Convenzioni Internazionali, me è ancora praticata, anzi è diffusa, riguarda cca il 70% degli Stati del mondo. 15

16 TORTURA Per «tortura» si intende ogni atto con il quale siano inflitti intenzionalmente ad una persona dolore o sofferenze gravi, sia fisiche sia mentali, allo scopo di ottenere da essa o da un’altra persona informazioni o una confessione, di punirla per un atto che ella o un’altra persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, per intimidirla o sottoporla a coercizione o per intimidire ed esercitare pressioni su un’altra persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, a condizione che il dolore o la sofferenza siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate. Convenzione delle Nazioni Unite Contro la Tortura art. 1 – CAT – PREAMBOLO Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti Conclusa a Nuova York il 10 dicembre 1984 Approvata dall’Assemblea federale il 6 ottobre 1986 Istrumento di ratificazione depositato dalla Svizzera il 2 dicembre 1986 Entrata in vigore per la Svizzera il 26 giugno 1987 (Stato 28 settembre 2012) Gli Stati Parte della presente Convenzione, considerato che, conformemente ai principi proclamati nella Carta delle Nazioni Unite3, il riconoscimento dei diritti uguali ed inalienabili di tutti i membri della famiglia umana è il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo, riconosciuto che tali diritti derivano dalla dignità inerente alla persona umana, considerato che gli Stati sono tenuti, in virtù della Carta, e in particolare dell’articolo 55, a promuovere il rispetto universale ed effettivo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, tenuto conto dell’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dell’articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, i quali stabiliscono entrambi che nessuno sia sottoposto a tortura o ad altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, tenuto ugualmente conto della Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone dalla tortura o da altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea generale il 9 dicembre 1975, animati dal desiderio di aumentare l’efficacia della lotta contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti nel mondo intero, hanno convenuto quanto segue: Art. 1 1. Ai fini della presente Convenzione, il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute*, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ** ad esse inerenti o da esse provocate. 2. Il presente articolo lascia impregiudicato ogni strumento internazionale ed ogni legge nazionale che contiene o può contenere disposizioni di portata più ampia. * Come si misura il dolore? Esistono torture che annientano senza procurare dolore ** spesso viene interpretato come relative alle leggi interne Art. 2 1. Ogni Stato Parte prende provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari ed altri provvedimenti efficaci per impedire che atti di tortura siano compiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione. 2. Nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura. 3. L’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica non può essere invocato in giustificazione della tortura. Art. 3 l. Nessuno Stato Parte espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Stato qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura. 2. Per determinare se tali ragioni esistono, le autorità competenti tengono conto di tutte le considerazioni pertinenti, compresa, se del caso, l’esistenza, nello Stato interessato, di un insieme di violazioni sistematiche, gravi, flagranti o massicce, dei diritti dell’uomo. Art. 4 1. Ogni Stato Parte provvede affinché qualsiasi atto di tortura costituisca un reato a tenore del suo diritto penale. Lo stesso vale per il tentativo di praticare la tortura o per qualunque complicità o partecipazione all’atto di tortura. 2. In ogni Stato Parte tali reati vanno resi passibili di pene adeguate che ne prendano in considerazione la gravità 16

17 TORTURA Chi la usa? Perché si usa? - Per ottenere informazioni
- Stati - Attori non statali - Contesti privati Perché si usa? - Per ottenere informazioni - Per punire - Fare paura ad una comunità intera ed impedire la ribellione o l’espressione del dissenso Chi sono le vittime? - Chi la denuncia - Chi è diverso (stranieri, oppositori, omosessuali ecc) PERCHE’ SI TORTURA? L’approvazione tacita, la tolleranza delle autorità e la mancanza di volontà di combatterla, sono la ragione di questa diffusione. La tortura non è solo prerogativa degli Stati, ma fa parte dell’armamentario repressivo di diversi “poteri non statali” ed è diffusa e tollerata anche in contesti privati, come quello familiare. La tortura moderna, comprende in sé buona parte delle forme proprie di quella antica, ma assume anche forme raffinate, rese possibili dallo sviluppo della medicina, della tecnologia, della psicologia. La definizione attuale di tortura, come atto attraverso il quale sono inflitti intenzionalmente dolore e sofferenze gravi, pone la questione della difficoltà, se non impossibilità, di misurare la sofferenza umana e dell’ adeguatezza della nozione di sofferenza per descrivere il fenomeno della tortura, visto che oggi certe forme di tortura arrivano a distruggere, senza “fare male”. Infine, secondo l’articolo 1 della CAT, se la sofferenza inflitta da un pubblico ufficiale è la conseguenza inevitabile di una “sanzione legale”, allora non siamo in presenza di tortura. L’uso del termine “sanzione legale” costituisce un elemento di debolezza della definizione, perché viene quasi sempre interpretata come sanzione conforme al diritto interno. Ad esempio ISRAELE, FINO AL 6/09/1999 E’ STATO L’UNICO PAESE IN CUI ERANO LEGALI METODI DI INTERROGATORIO CHE PREVEDEVANO LA TORTURA - Chi è vulnerabile (donne, bambini), ma può colpire chiunque Che metodi usa? - Metodi rozzi e brutali, simili a quelli di secoli fa - Metodi moderni, legati alle scoperte della medicina e della tecnologia (tortura pulita, che non lascia tracce - fragilità della definizione) OBIETTIVO: distruggere le vittime nel corpo e nella mente, privarle della dignità, di ciò che le rende umane 17

18 RIDEFINIRE LA SITUAZIONE
Chi sono gli aguzzini? L’esperimento di Milgram: lo stato eteronomico L’esperimento di Zimbardo: la deindividuazione “Non c'è possibilità di errore: ogni regime che tortura lo fa in nome della salvezza, di qualche interesse superiore, di una promessa del paradiso. Chiamatelo comunismo, chiamatelo libero mercato, chiamatelo mondo libero, chiamatelo interesse nazionale, chiamatelo fascismo, chiamatelo civiltà, chiamatelo paradiso, chiamatelo come vi pare... per almeno una persona, in questo momento, da qualche parte del mondo, è l'inferno". (Ariel Dorfman, scrittore cileno, maggio 2004) CHI TORTURA? Oggi è un’emergenza Internazionale. I responsabili NON sono sadici e squilibrati, ma persone che, seppure in segreto, operano per conto di chi esercita il potere. Gli esperimenti di Stanley Milgram e Philip Zimbardo, che indagano i meccanismi che producono l’obbedienza e la deindividuazione, dimostrano che i torturatori sono persone comuni, normali. Questo significa che, nonostante il fatto che la tortura produca in noi un’immediata reazione di disgusto, in realtà è un fenomeno che può sempre invadere la nostra vita, che non dovremmo mai sentrici assolutamente certi che, in determinate situazioni, anche noi potremmo diventare degli aguzzini Gli esperimenti di Stanley Milgram e Philip Zimbardo, che indagano i meccanismi che producono l’obbedienza e la deindividuazione, dimostrano che i torturatori sono persone comuni, normali. Questo significa che, nonostante il fatto che la tortura produca in noi un’immediata reazione di disgusto, in realtà è un fenomeno che può sempre invadere la nostra vita, che non dovremmo mai sentirici assolutamente certi che, in determinate situazioni, anche noi potremmo diventare degli aguzzini. L'esperimento Milgram fu un esperimento di psicologia sociale condotto nel 1961 dallo psicologo sociale statunitense Stanley Milgram. Lo scopo dell'esperimento era quello di studiare il comportamento di soggetti a cui un'autorità (nel caso specifico uno scienziato) ordina di eseguire delle azioni che confliggono con i valori etici e morali dei soggetti stessi. L'esperimento cominciò tre mesi dopo l'inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Milgram concepiva l'esperimento come un tentativo di risposta alla domanda: "È possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?"[ L'esperimento  I partecipanti alla ricerca furono reclutati tramite un annuncio su un giornale locale o tramite inviti spediti per posta a indirizzi ricavati dalla guida telefonica. Il campione risultò composto da persone fra i 20 e i 50 anni, maschi, di varia estrazione sociale. Fu loro comunicato che avrebbero collaborato, dietro ricompensa, a un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell'apprendimento. Nella fase iniziale della prova, lo sperimentatore, assieme a un collaboratore complice, assegnava con un sorteggio truccato i ruoli di "allievo" e di "insegnante": il soggetto ignaro era sempre sorteggiato come insegnante e il complice come allievo. I due soggetti venivano poi condotti nelle stanze predisposte per l'esperimento. L'insegnante (soggetto ignaro) era posto di fronte al quadro di controllo di un generatore di corrente elettrica, composto da 30 interruttori a leva posti in fila orizzontale, sotto ognuno dei quali era scritto il voltaggio, dai 15 V del primo ai 450 V dell'ultimo. Sotto ogni gruppo di 4 interruttori apparivano le seguenti scritte: (1–4) scossa leggera, (5–8) scossa media, (9–12) scossa forte, (13–16) scossa molto forte, (17–20) scossa intensa, (21–24) scossa molto intensa, (25–28) attenzione: scossa molto pericolosa, (29–30) XXX. All'insegnante era fatta percepire la scossa relativa alla terza leva (45 V) in modo che si rendesse personalmente conto che non vi erano finzioni e gli venivano precisati i suoi compiti come segue: Leggere all'allievo coppie di parole, per esempio: "scatola azzurra", "giornata serena"; ripetere la seconda parola di ogni coppia accompagnata da quattro associazioni alternative, per esempio: "azzurra – auto, acqua, scatola, lampada"; decidere se la risposta fornita dall'allievo era corretta; in caso fosse sbagliata, infliggere una punizione, aumentando l'intensità della scossa a ogni errore dell'allievo. Quest’ultimo veniva legato ad una specie di sedia elettrica e gli era applicato un elettrodo al polso, collegato al generatore di corrente posto nella stanza accanto. Doveva rispondere alle domande, e fingere una reazione con implorazioni e grida al progredire dell'intensità delle scosse (che in realtà non percepiva), fino a che, raggiunti i 330 V, non emetteva più alcun lamento, simulando di essere svenuto per le scosse precedenti. Lo sperimentatore aveva il compito, durante la prova, di esortare in modo pressante l'insegnante: "l'esperimento richiede che lei continui", "è assolutamente indispensabile che lei continui", "non ha altra scelta, deve proseguire". Il grado di obbedienza fu misurato in base al numero dell'ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima che quest'ultimo interrompesse autonomamente la prova oppure, nel caso il soggetto avesse deciso di continuare fino alla fine, al trentesimo interruttore. Soltanto al termine dell'esperimento i soggetti vennero informati che la vittima non aveva subito alcun tipo di scossa. Risultati  Contrariamente alle aspettative, nonostante i 40 soggetti dell'esperimento mostrassero sintomi di tensione e protestassero verbalmente, una percentuale considerevole di questi obbedì pedissequamente allo sperimentatore. Questo stupefacente grado di obbedienza, che ha indotto i partecipanti a violare i propri principi morali, è stato spiegato in rapporto ad alcuni elementi, quali l'obbedienza indotta da una figura autoritaria considerata legittima, la cui autorità induce uno stato eteronomico, caratterizzato dal fatto che il soggetto non si considera più libero di intraprendere condotte autonome, ma strumento per eseguire ordini. I soggetti dell'esperimento non si sono perciò sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma esecutori dei voleri di un potere esterno. Alla creazione del suddetto stato eteronomico concorrono tre fattori: percezione di legittimità dell'autorità (nel caso in questione lo sperimentatore incarnava l'autorevolezza della scienza) adesione al sistema di autorità (l'educazione all'obbedienza fa parte dei processi di socializzazione) le pressioni sociali (disobbedire allo sperimentatore avrebbe significato metterne in discussione le qualità oppure rompere l'accordo fatto con lui). Il grado di obbedienza all'autorità variava però sensibilmente in relazione a due fattori: la distanza tra insegnante e allievo e la distanza tra soggetto sperimentale e sperimentatore. Furono infatti testati quattro livelli di distanza tra insegnante e allievo: nel primo l'insegnante non poteva osservare né ascoltare i lamenti della vittima; nel secondo poteva ascoltare ma non osservare la vittima; nel terzo poteva ascoltare e osservare la vittima; nel quarto, per infliggere la punizione, doveva afferrare il braccio della vittima e spingerlo su una piastra. Nel primo livello di distanza, il 65% dei soggetti andò avanti sino alla scossa più forte; nel secondo livello il 62,5%; nel terzo livello il 40%; nel quarto livello il 30%. Grazie all'esperimento, Milgram arrivò a dimostrare che l'obbedienza dipende anche dalla ridefinizione del significato della situazione. Ogni situazione è infatti caratterizzata da una sua ideologia che definisce e spiega il significato degli eventi che vi accadono, e fornisce la prospettiva grazie alla quale i singoli elementi acquistano coerenza. La coesistenza di norme sociali contrastanti (da una parte quelle che inducono a non utilizzare la forza e la violenza e dall'altra quelle che prevedono una reazione aggressiva a certi stimoli) fa sì che la probabilità di attuare comportamenti aggressivi venga di volta in volta influenzata dalla percezione individuale della situazione (che determina quali norme siano pertinenti al contesto e debbano pertanto essere seguite). Dal momento che il soggetto accetta la definizione della situazione proposta dall'autorità, finisce col ridefinire un'azione distruttiva, non solo come ragionevole, ma anche come oggettivamente necessaria. Le numerose ricerche che hanno successivamente utilizzato il paradigma di Milgram (come quelle di David Rosenhan), hanno tutte pienamente confermato i risultati ottenuti dallo studioso, che sono stati ampiamente discussi anche nell'ambito di quel cospicuo filone di studi interessati a ricostruire i fattori che hanno reso possibile lo sterminio ad opera dei nazisti. Esperimento carcerario di Stanford Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'esperimento della prigione di Stanford fu un esperimento psicologico volto a indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza. L'esperimento prevedeva l'assegnazione, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri all'interno di un carcere simulato. Fu condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretto dal professor Philip Zimbardo della Stanford University. Gli inattesi risultati ebbero dei risvolti così drammatici da indurre gli autori dello studio a sospendere la sperimentazione. L'esperimento Zimbardo riprese alcune idee dello studioso francese del comportamento sociale Gustave Le Bon; in particolare la teoria della deindividuazione, la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso costituente una folla, tendono a perdere l'identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali. Tale processo fu analizzato da Zimbardo nel celebre esperimento, realizzato nell'estate del 1971 nel seminterrato dell'Istituto di psicologia dell'Università di Stanford, a Palo Alto, dove fu riprodotto in modo fedele l'ambiente di un carcere. L'Università di Stanford, all'interno della quale è stato fedelmente riprodotto l'ambiente carcerario Fra i 75 studenti universitari che risposero a un annuncio apparso su un quotidiano che chiedeva volontari per una ricerca, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti; furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l'ordine. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di deindividuazione. Risultati I risultati di questo esperimento sono andati molto al di là delle previsioni degli sperimentatori, dimostrandosi particolarmente drammatici. Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all'interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude. A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l'esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati, ma dall'altro un certo disappunto da parte delle guardie. Conclusioni Secondo l'opinione di Philip Zimbardo, la prigione finta, nell'esperienza psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, era diventata una prigione vera. Assumere una funzione di controllo sugli altri nell'ambito di una istituzione come quella del carcere, assumere cioè un ruolo istituzionale, induce ad assumere le norme e le regole dell'istituzione come unico valore a cui il comportamento deve adeguarsi, induce cioè quella "ridefinizione della situazione" utilizzata anche da Stanley Milgram per spiegare le conseguenze dello stato eteronomico (assenza di autonomia comportamentale) sul funzionamento psicologico delle persone. Il processo di deindividuazione induce una perdita di responsabilità personale, ovvero la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni, indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l'espressione di comportamenti distruttivi. La deindividuazione implica perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un'aumentata identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo: l'individuo pensa, in altri termini, che le proprie azioni facciano parte di quelle compiute dal gruppo. L'importanza e l'attualità degli studi di Zimbardo e di altri ricercatori, sarebbe dimostrata dalle vicende riguardanti le torture cui furono sottoposti i prigionieri iracheni nella Prigione di Abu Ghraib, ad opera di militari statunitensi, durante l'occupazione militare dell'Iraq, iniziata nel 2003. Le immagini diffuse dai media, che ritraggono le sevizie e le umiliazioni subite dai prigionieri, risultano drammaticamente simili a quelle prodotte durante l'esperimento dell'Università di Stanford.[1] Le tesi alla base di questo esperimento vengono analizzate da Zimbardo in un suo saggio del 2007 (in Italia, pubblicato nel 2008) intitolato L'effetto Lucifero Risultati Contrariamente alle aspettative, nonostante i 40 soggetti dell'esperimento mostrassero sintomi di tensione e protestassero verbalmente, una percentuale considerevole di questi obbedì pedissequamente allo sperimentatore. Questo stupefacente grado di obbedienza, che ha indotto i partecipanti a violare i propri principi morali, è stato spiegato in rapporto ad alcuni elementi, quali l'obbedienza indotta da una figura autoritaria considerata legittima, la cui autorità induce uno stato eteronomico, caratterizzato dal fatto che il soggetto non si considera più libero di intraprendere condotte autonome, ma strumento per eseguire ordini. I soggetti dell'esperimento non si sono perciò sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma esecutori dei voleri di un potere esterno. Alla creazione del suddetto stato eteronomico concorrono tre fattori: 18

19 IMPUNITA’ La tortura è così diffusa perché rimane spesso IMPUNITA.
STRUMENTI UTILE PER COSTRUIRE L’IMPUNITÀ il terrore l’isolamento l’impossibilità di riconoscere gli aguzzini l’impossibilità di risalire a chi era in servizio nei momenti in cui la tortura veniva praticata la cosmesi dei DD.UU. La tortura è vietata in tutto il mondo, eppure è molto diffusa. Il sistema dell’impunità punta a proteggere i torturatori anziché le loro vittime, impedendo che i primi siano condannati per i loro atti criminali e che alle seconde venga resa giustizia. E’ la stessa tortura che attiva il sistema di impunità, essa infatti non è praticata solo per estorcere confessioni, ma per terrorizzare la vittima che, una volta rilasciata, diffonderà questo terrore nella comunità. Perché la tortura avvenga fino in fondo, meglio dunque non uccidere il torturato, per permettergli di raccontare. In questo modo il torturatore sortisce 2 effetti: dimostra che la tortura “fa male” e insinua il sospetto che la vittima sia stata liberata perché ha parlato, cercando quindi di fare terra bruciata intorno a lei. Perché sia efficace, di solito la tortura viene praticata nelle prime ore dopo l’arresto (AU), quando la vittima è più fragile, in condizioni di completo isolamento, consentite da leggi e regolamenti che si configurano come il braccio legale della tortura. Le vittime vengono bendate, perché non riconoscano i carnefici, i registri delle prigioni vengono manomessi, in modo che non si possa risalire a chi era in servizio durante la tortura. Negli ultimi anni, di fronte alla mobilitazione delle organizzazioni per i diritti umani e dell’opinione pubblica, il sistema dell’impunità si è arricchito di un’altra tecnica, una sorta di “cosmesi dei diritti umani”, che consiste in operazioni di facciata per ingannare l’opinione pubblica e i mezzi di informazione. Spesso si promulgano leggi all’avanguardia per contrastare la tortura, che non troveranno applicazione, o si istituiscono comitati per ricevere denunce e svolgere indagini sulle violazioni dei dduu, che finiscono per essere strutture dipendenti dai governi, complici e inattive. 19

20 IMPUNITA’ “I responsabili circolano liberamente per le strade.
Sequestratori, torturatori, generali e colonnelli. Capita di incontrarli in un bar, in un ristorante, in un cinema. Capita che qualcuno li riconosca e li insulti. Di solito il criminale accenna un sorriso beffardo e si risiede a tavola, bene o male soddisfatto di essere ancora qualcuno. Ecco cos’è l’impunità. (Marco Bechis, regista di Garage Olimpo) 20

21 IL DIVIETO DI TORTURA Il diritto internazionale proibisce la tortura in modo inderogabile. Tale divieto permane anche in situazioni eccezionali e nei conflitti armati, come sancito dalle convenzioni di Ginevra. Anche lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998, che riguarda i più gravi crimini previsti dalle leggi internaz., proibisce la tortura e i maltrattamenti alla stregua di crimini contro l’umanità e crimini di guerra. La tortura è proibita dal diritto internazionale in modo inderogabile. Tale divieto permane anche in situazioni eccezionali e nei conflitti armati, come sancito dalle convenzioni di Ginevra.Anche lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998, che riguarda i più gravi crimini previsti dalle leggi internazionali, proibisce la tortura e i maltrattamenti alla stregua di crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Molti Stati, avendo dovuto accettare il fatto che la tortura è proibita in modo assoluto, si adoperano per restringere la portata del divieto negando che certe pratiche rientrino nella nozione di tortura. Questo è avvenuto in modo massiccio dopo l’11/09/2001, con l’inizio della guerra al terrore. Occorre quindi fare in modo che la definizione giuridica di tortura assomigli il più possibile al fenomeno reale. Questo divieto si basa su un consenso internazionale di natura etica. L’attacco alle torri gemelle del11/09/2001, ha spinto molti Stati, primi gli USA, a ridefinire il significato della situazione e a considerare che, per battere il terrorismo, fosse necessario, anzi utile, ridurre certe libertà, perché la guerra al terrore non poteva essere condotta con le vecchie regole della Comunità Internazionale 21

22 LA GUERRA AL TERRORE IL PATRIOCT ACT (26/10/2001)
Dopo dell’11/09/2001, molti Stati, primi tra tutti gli USA, si adoperano per restringere la portata del divieto di tortura, sdoganando alcune pratiche che vengono ritenute non solo accettabili ma necessarie alle esigenze militari e di difesa. IL PATRIOCT ACT (26/10/2001) La definizione di terrorismo La negazione dello status di prigioniero di guerra ai presunti terroristi (combattenti nemici) I maltrattamenti consentiti durante gli interrogatori La detenzione segreta La tortura in subappalto Le rendition Nel contesto della “Guerra al terrore”, la proibizione internazionale della tortura e degli altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti è stata rimessa in discussione da parte di molti Stati, i cui pubblici ufficiali hanno inflitto sofferenze inenarrabili a centinai di prigionieri, ricorrendo a metodi abominevoli e brutali, già da tempo messi al bando dalla comunità internazionale. Le autorità degli Stati Uniti e di altri Stati, che hanno praticato la tortura, hanno proposto una definizione molto “restrittiva “ di tortura, descrivendo certe forme di maltrattamento come tecniche di pressione fisica e psicologica e sostenendo che determinate procedure non fossero necessariamente illegali, ma potessero essere giustificate sulla base di esigenze militari e di difesa. In quest’ottica, la tortura rimane illegale, ma i trattamenti crudeli, inumani e degradanti, possono essere consentiti. In un memorandum del 1 agosto 2002 dell’ufficio di consulenza legale del ministero della giustizia americano si specifica che, perché un atto sia tortura, esso deve “infliggere un dolore di intensità equivalente al dolore che produce un grave danno fisico, come il mancato funzionamento di un organo, la menomazione di una funzione corporea o anche la morte. Inoltre, perché sia incriminato per tortura, un imputato deve aver agito con il primario intento di infliggere dolore grave. Infine il Presidente, in quanto capo delle forze armate durante la guerra, può ordinare la tortura, e i torturatori saranno immuni dalla responsabilità penale. Questo memorandum è rimasto in vigore per 2 anni, fino a quando, il 22 giugno 2004, dopo lo scandalo delle torture di Abu Ghraib e dopo che i suoi contenuti sono stati resi pubblici, è stato sconfessato. Il 30 dicembre 2004, un nuovo memorandum dell’ufficio di consulenza legale del dipartimento di giustizia, ribadisce la liceità di metodi di coercizione psicologica, come le minacce di morte. Inoltre il memorandum specifica che, atti proibiti dalle leggi federali contro la tortura, come procedure volte a sconvolgere profondamente i sensi e la personalità, non costituiscono tortura, a meno che non ci sia la prova che avranno conseguenze a lungo termine sulla vittima, confermando così la precedente opinione sui trattamenti crudeli, inumani e degradanti, così come viene confermato che il presidente può ordinare la tortura e rimanere immune da procedimento giudiziario. Il presidente Bush, il 20 settembre 2001 ha affermato “ La nostra guerra al terrore comincia con al Qaeda, ma non finisce con essa. Non finirà finchè ogni gruppo terroristico in ambito globale sarà scoperto, fermato e debellato”. Bush e numerose corti federali hanno decretato che le libertà possono essere ridotte in nome della lotta al terrore. E ha affermato, in sostanza, che la risposta alla minaccia del terrorismo non può essere vincolata alle vecchie regole condivise nell’ambito della comunità internazionale [TERRORISMO] Il Patriot Act è un pacchetto di norme temporanee antiterrorismo di 131 pag, approvato praticamente all’unanimità dal Congresso, in vigore dal 26/10/2001 e rinnovato il 9/3/2006. Esso fornisce una nuova definizione di terrorismo :”Atti pericolosi per la vita umana in violazione della legge penale che siano tesi ad intimidire o a costringere la popolazione civile, o a influenzare la politica di un governo con l’intimidazione o la coercizione” . La definizione è così larga che probabilmente ogni atto di disobbedienza civile e di protesta può essere considerata illegale: Una manifestazione che si svolga sul percorso di un’ambulanza, potrebbe essere considerata pericolosa per la vita umana. Secondo il Patriot Act l’attività proibita che porta un’organizzazione nella lista governativa di quelle terroristiche, può non consistere in atti violenti nei confronti delle persone. Qualsiasi cosa tenda a destabilizzare o sulla quale voglia influire con la coercizione, può portarla ad essere definita terroristica. Ad esempio tempestare di mail che criticano la politica del governo un ufficio parlamentare e intasare il server, può essere considerato terrorismo. Anche la Framework Decision dell’Unione Europea, relativa alla lotta contro il terrorismo ed entrata in vigore il 1/1/2003, ha ampliato i confini della definizione di terrorismo che ora comprende coloro che producono danni alle installazioni, così come alle infrastrutture degli apparati informativi, o alle istituzioni che si pongono lo scopo di alterare profondamente la struttura politica, economica o sociale. In Canada il “Bill C-36” amplia la definizione di terrorismo sino ad includere coloro che” intendono provocare gravi interferenze o gravi interruzioni ad un servizio essenziale” e consente al ministro di compilare una lista dei gruppi terroristici.] Dopo l’11 settembre nel nome della cosiddetta "guerra al terrorismo" la tortura è stata praticata anche in molte democrazie occidentali. La sua eliminazione - sia come prassi sia attraverso il divieto esplicito sancito da specifiche leggi - costituisce oggi una della maggiori sfide della comunità internazionale. Tutte le forme di tortura e maltrattamento sono ASSOLUTAMENTE VIETATE dal diritto internazionale e dalle norme che regolano la condotta in tempo di guerra. Questo divieto si basa su un CONSENSO INTERNAZIONALE DI NATURA ETICA: la tortura è ripugnante, abominevole, immorale Tortura collaterale Dopo l’11/09/2001 si sono assottigliati gli standard di tutela dei diritti dei detenuti e dei sospetti di terrorismo, soprattutto immigrati. Il sistema di protezione dei diritti umani ha conosciuto una seria offensiva a causa di abusi “legittimati” dall’emergenza internazionale. Negli Stati Uniti la mobilitazione contro il terrorismo ha portato all’adozione di leggi speciali (Patriot Act) che, tra l’altro, negavano alle persone catturate lo status di prigioniero di guerra (protetti dalle convenzioni di Ginevra) e autorizzavano la tortura brutale dei sospetti di affiliazione a organizzazioni terroristiche .Come già detto, l’amministrazione USA ha dichiarato che esistevano una serie di maltrattamenti che non rientravano nella nozione di tortura e potevano essere utilizzati durante gli interrogatori. Questi comprendevano: L’isolamento prolungato La privazione del sonno La manipolazione sensoriale (esposizione a luce molto chiara e a suoni molto forti) Umiliazioni sessuali e di altra natura L’uso dei cani, la minaccia di esecuzione o ltri tipi di minacce per incutere paura L’obbligo di rimanere in posizioni dolorose per ore I pestaggi La manipolazione ambientale (esposizione a temperature gelide o torride) L’uso ripetuto di insulti di natura religiosa o razziale, descritto dai manuali USA come abbassamento dell’orgoglio e dell’ego L’uso prolungato delle manette L’incappucciamento, La privazione del sonno. Ogni forma di maltrattamento costituisce un deliberato attacco all’identità e all’umanità di una persona. Molte di queste tecniche non lasciano segni fisici ma possono avere conseguenze devastanti. Ansia, depressione, iiritabilità, vergogna, umiliazione, disturbi della memoria, perdita della concentrazione, emicrania, disturbi del sonno, incubi, instabilità emotiva, problemi allo stomaco, ai polmoni, al cuore, problemi di natura sessuale, amnesia, episodi di autolesionismo tentativi di suicidio e isolamento sociale. Tutte queste conseguenze sono state riscontrate nei detenuti in Iraq, in Afghanistan e a Guantanamo Bay. Solo nel 2003 a Guantanamo Bay gli atti di autolesionismo sono stati 350. LNel gennaio del 2005 il Royal College of Psychiatrist (Engl) ha affermato che la detenzione a tempo indeterminato, l’assenza di un giusto processo e la sensazione di impotenza che ne derivano, tendono a provocare il deterioramento della salute mentale del detenuto. L’impatto della tortura muta da persona a persona e cambia nel tempo, ma un individuo sottoposto a tortura torna alla propria famiglia profondamente cambiato. La detenzione incommunicado e prolungata ha favorito l’uso della tortura. Dalla fine del 2001 gli USA, nel contesto della guerra al terrore, hanno arrestato, fuori del proprio territorio, almeno persone, e altre si ritiene siano detenute in carceri in USA, a Guantanamo, in Iraq e in Afganistan. Ulteriori centri di detenzione segreti, sono stati segnalati in altri Paesi e anche in Europa. (vedi p. 20 briefing “La tortura nell’era della Guerra al terrore”) A catena questo approccio ha trovato riflesso in molti altri Stati, sdoganando pratiche come arresti arbitrari, detenzioni a tempo indeterminato senza accusa né processo e tortura. «Ha legittimato pratiche orribili, ci appelliamo ai governi perché cooperino, non solo al fine di chiarire i fatti, ma anche perché si impegnino a non aprire in futuro altri centri di detenzione segreti», la denuncia ufficiale è stata pronunciata nel marzo 2009 dallo speciale rapporteur dell’Onu per la difesa dei diritti umani nella lotta al terrorismo, Martin Scheinin, durante la presentazione al Consiglio dell’Onu per i diritti umani di uno studio sulle carceri segrete usate negli ultimi anni, in particolare dagli Stati Uniti, ma anche da altri come Sri Lanka e Pakistan e una decina di altri Stati in tutti i continenti. Fino al 2006 gli USA, con la complicità di altri Paesi (tra cui l’Italia), hanno catturato persone in varie parti del mondo, le hanno tenute in carceri segrete, le hanno trasferite illegalmente da un Paese all’altro e le hanno sottoposte a torture e maltrattamenti. Alti funzionari dell’Amministrazione Bush hanno autorizzato l’uso di tecniche di interrogatorio crudeli, inumane e degradanti, che possono essere considerate tortura. Essendo gli USA il Paese più potente del mondo, il suo comportamento ha un’enorme influenza e incoraggia la diffusione di comportamenti inaccettabili. Cina Egitto, Malaysia, Arabia Saudita, Uzbekistan e Yemen hanno così cominciato a usare la scusa della “guerra al terrore” per mascherare e rafforzare politiche repressive. Australia, Giordania Regno Unito e alcuni Paesi della Penisola Arabica hanno introdotto leggi draconiane e pratiche illegali. Germania, Turchia e Regno Unito sono stati molto riluttanti ad affrontare i casi di connazionali arrestati e maltrattati dalle forze militari USA (per es a Guantanamo). Infine Egitto Gambia, Kazakistan, Marocco, Pakistan, Svezia, Inghilterra, Italia (Abu Omar) e altri ancora, hanno consentito ad agenti stranieri (di Usa, Cina, Egitto e Siria) di prelevare illegalmente persone dal loro territorio ll presidente Bush, in particolare, ha autorizzato la Cia a ricorrere alla detenzione e agli interrogatori segreti, sebbene ciò si configuri come crimine internazionale di sparizione forzata. Nel libro Una questione di tortura di Alfred McCoy si trova un bilancio della guerra al terrore nelle carceri speciali Usa: “Quasi ‘detenuti di sicurezza’ iracheni sottoposti a interrogatorio duro, spesso con tortura; prigionieri ‘di alto valore’ interrogati con tortura sistematica, a Guantanamo e a Bagram; 150 rendition (sequestri di persone e detenzioni segrete) extralegali di sospetti terroristi in nazioni note per la loro crudeltà; 68 detenuti morti in circostanze sospette; 36 detenuti di alto rango affiliati ad Al Qaeda sottoposti per anni alle torture della Cia e 26 detenuti assassinati durante l’interrogatorio, almeno 4 dei quali dalla Cia”. Queste violazioni sono state più volte condannate dall’Onu e da associazioni per i diritti umani e paesi alleati. Nel gennaio 2008 il neopresidente Back Obama, fra i suoi primi atti, ha ordinato alle agenzie governative di attenersi durante gli interrogatori alle limitazioni contenute nel Manuale dell'esercito, che vieta la simulazione di annegamento precedentemente autorizzata. Ha chiesto inoltre una revisione delle pratiche di detenzione e interrogatorio. Il presidente democratico ha ordinato anche la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo Bay (non ancora avvenuta!!), a Cuba, dove sono detenuti da anni e senza processo molti stranieri sospettati di terrorismo. 21 giugno 2013 17 Lunedì 17 giugno il quotidiano più importante di Miami, il Miami Herald, ha pubblicato la lista dei 166 detenuti che si trovano nella prigione di Guantanamo, il carcere militare di massima sicurezza allestito dagli Stati Uniti a Cuba dopo gli attentati dell’11 settembre Tra questi, figurano 48 nomi di “detenuti a tempo indeterminato”, ovvero cittadini non statunitensi, per lo più provenienti da Yemen e Afghanistan, sospettati di reati legati al terrorismo: rispetto agli altri prigionieri, i “detenuti a tempo indeterminato” sono ritenuti troppo pericolosi per essere trasferiti o rilasciati, ma non ci sono prove sufficienti per sottoporli a un processo. Sono prigionieri di guerra il cui status si basa – anche se tra molti dubbi e polemiche – sulla legge “Authorization for Use of Military Force“, approvata dal Congresso statunitense nel settembre del 2001 e voluta dall’allora amministrazione di George W. Bush. La lista è stata diffusa il giorno stesso che il Dipartimento di Stato ha annunciato la nomina di Cliff Sloan come inviato speciale a Guantanamo, a cui è stato affidato l’incarico di lavorare in vista di una chiusura del carcere. Il Miami Herald l’ha ottenuta dal Dipartimento della Difesa statunitense sulla base del “Freedom of Information Act“, una legge sulla libertà di informazione che costringe il governo a permettere l’accesso totale o parziale di alcuni documenti classificati. La lista dei “detenuti a tempo indeterminato” era stata stilata nel 2010 dall’amministrazione Obama ma fino a lunedì non era stata resa pubblica. Dopo la pubblicazione della lista, molti attivisti per i diritti umani hanno criticato di nuovo il governo di Washington per non garantire un giusto processo a tutti coloro che sono detenuti nelle carceri dalle autorità statunitensi, anche per reati di terrorismo. Zeke Johnson di Amnesty International ha detto: «Secondo quanto prevede il diritto internazionale umanitario, tutti i detenuti dovrebbero essere giudicati e processati in un tribunale federale, o rilasciati». Alcuni detenuti inclusi nella lista stanno facendo lo sciopero della fame contro le condizioni di detenzione a cui sono sottoposti, e sono costretti dalle autorità del carcere a subire l’alimentazione forzata, una pratica che è stata definita da alcune associazioni umanitarie come “disumana”. Il presidente statunitense ha firmato più volte ordini di chiusura di Guantanamo ma il Congresso non ha mai dato la sua autorizzazione. I “detenuti a tempo indeterminato” sono 26 yemeniti, 12 afghani, 3 sauditi, 2 kuwaitiani, 2 libici, 1 keniano, 1 marocchino e 1 somalo. Due afghani i cui nomi compaiono nella lista sono morti, uno per attacco cardiaco e l’altro si è suicidato. Per Amnesty International, manca chiarezza in particolare sui centri di detenzione segreti: "Se da un lato viene revocato l'ordine firmato da Bush il 20 luglio 2007 che autorizzava la Cia a portare avanti il programma delle detenzioni segrete iniziato nel 2001 – ha spiegato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia - dall'altro non c'è un'espressa proibizione per i servizi di intelligence a fare ricorso a tali pratiche: bisogna essere molto chiari per evitare che possano rimanere aperte delle fessure che lascino margine a interpretazioni e discrezionalità". Da un'analisi del provvedimento emerge solo un riesame delle regole attinenti alle "renditions" con l'istituzione di una speciale task force incaricata di esaminare le pratiche di trasferimento di persone verso altri Paesi nel rispetto delle norme internazionali. Inoltre, come illustrato in una lettera indirizzata da Human Rights Watch a Leon Panetta, nuovo capo della Cia, andrebbe rivisto anche il sistema delle assicurazioni diplomatiche di trattamenti umani con cui numerosi detenuti sono stati inviati in paesi in cui sono stati poi oggetto di torture. 22

23 PROIBIRE LA TORTURA NON BASTA!
Occorre un sistema internazionale di prevenzione e repressione che impedisca il verificarsi delle condizioni di segretezza in cui la tortura prospera e che sconfigga l’impunità. Oggi esistono: GLI OBBLIGHI PER GLI STATI - Obblighi di risultato - Obblighi di condotta LE GARANZIE INTERNAZIONALI - Special Rapporteur sulla tortura dell’ONU - Comitato contro la tortura - Convenzione europea dei DD.UU (1950) - Convenzione europea per la prevenzione contro la tortura (1987) GLI OBBLIGHI PER GLI STATI Gli accordi più recenti prevedono per gli Stati parte, non solo OBBLIGHI di RISULTATO, cioè l’elenco dei diritti che i Paesi devono rispettare, ma anche OBBLIGHI di CONDOTTA, che specificano quali mezzi utilizzare per raggiungere l’obiettivo di contrastare la tortura. Ad esempio c’è l’obbligo preventivo di non estradare o espellere una persona verso Paesi in cui sia a rischio di tortura, o l’obbligo di prevedere nel ordinamento penale uno specifico reato di tortura e di pene adeguate alla gravità del delitto. La tortura fa parte della ristretta cerchia dei crimini internazionali, la cui repressione riguarda TUTTI gli Stati della comunità internazionale. Qualunque Stato sul cui territorio l’accusato si viene a trovare, può esercitare la propria giurisdizione e, se non lo fa, è tenuto ad accogliere eventuali domande di estradizione da parte di Paesi interessati a processare l’accusato – PRINCIPIO AUT DEDERE AUT GIUDICARE – perché il crimine di tortura riguarda l’umanità intera Un altro obbligo di condotta è quello che prevede di non accordare alcuna immunità, ad esempio quelle garantite ai capi di Stato, non valgono per il reato di tortura, come evidenziato dal caso Pinochet, infine è vietato utilizzare confessioni estorte sotto tortura, eventualmente anche da altri Paesi LE GARANZIE INTERNAZIONALI Entrano in campo una volta esauriti i rimedi “interni”. Si tratta di meccanismi giudiziari complementari rispetto alla giustizia statale, come la Corte Penale Internazionale, nata con la Conferenza di Roma del 1998. Tra queste garanzie ricordiamo: SPECIAL RAPPORTEUR sulla tortura dell’ONU, che ricerca e riceve notizie su casi singoli e situazioni complessive sulla tortura, formula raccomandazioni agli Stati e riferisce alla Commissione per i Diritti Umani dell’ONU COMITATO CONTRO LA TORTURA: Controlla l’applicazione della Convenzione del Gli Stati parte devono fornire alla Commissione aggiornamenti periodici sullo stato di applicazione della Convenzione. Il comitato riceve ricorsi sia dagli Stati sia da singoli individui In ambito europeo esistono 2 meccanismi di garanzia: CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI DEL 1950: non è specifica sulla tortura. Le violazioni di questa Convenzione sono oggetto di ricorso alla Corte Europea dei diritti umani che emette sentenze vincolanti CONVENZIONE EUROPEA PER LA PREVENZIONE CONTRO LA TORTURA DEL 1987: prevede visite periodiche e non, di un corpo di ispettori europei nei luoghi di detenzione per individuare le situazioni a rischio e porvi rimedio. 23

24 LA SITUAZIONE IN ITALIA
Il rapporto annuale 2013, per quanto riguarda il nostro Paese ed in relazione all’operato delle forze di polizia evidenzia violazioni dei dd.uu negli ambiti: TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI PROCESSI PER IL G8 DI GENOVA 2001 UCCISIONI ILLEGALI Dal Rapporto Annuale Amnesty 2013 TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A ottobre 2012, il parlamento ha approvato la ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ma non ha introdotto il reato di tortura nel codice penale, come la Convenzione richiede. L’ultimo passo sulla via del rispetto delle regole internazionali lo abbiamo fatto nell’autunno scorso, quando il governo Monti ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura (Opcat), depositato poi nell’aprile 2013 ed entrato in vigore un mese dopo. Un Protocollo che conferisce al Comitato Onu contro la tortura poteri effettivi e non più simbolici - di ispezione e monitoraggio - e impone ai Paesi aderenti l’istituzione entro un anno del National preventive mechanism (Npm), un meccanismo interno di controllo e garanzia dei diritti umani in tutti i luoghi di detenzione: non solo carceri ma anche caserme, centri per immigrati, reparti sanitari protetti, ecc. Entro maggio 2014, dunque, l’Italia dovrebbe anche dotarsi di uno strumento di questo tipo, come può essere l’istituzione del Garante nazionale dei detenuti, magari conferendo a questa figura maggiori poteri rispetto a quelli goduti dai garanti regionali. - See more at: Il 13 Agosto del 2013 è stata approvata la proposta di legge dall'Aula della Camera, che ora passa all'esame del Senato, che prevede che venga punito con il carcere da uno a 12 anni chi "con violenza o minacce gravi infligge ad una persona forti sofferenze fisiche o mentali, ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti allo scopo di ottenere da essa o da una terza persona informazioni e confessioni su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di aver compiuto". Ma il torturatore verra' condannato anche se il suo scopo è un altro, cioe' quello di "punire una persona per un atto che essa stessa o un'altra persona ha compiuto o e' sospettata di avere compiuto". Infine anche per 'motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa e sessuale". La pena, sara' aumentata se a torturare è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio e se dal fatto deriva "una lesione grave o gravissima". E' raddoppiata, infine, se la vittima muore. Il testo della commissione integra di fatto il reato di tortura affermando che è punito chiunque infligge forti sofferenze fisiche o mentali "ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti".  Inoltre si stabilisce che "non puo' essere assicurata l'immunita' diplomatica" al torturatore non italiano che potra' cosi' essere estradato. E che possa essere punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che tortura in un paese estero.  L’ articolo che prevedeva l'istituzione di un fondo per le vittime della tortura, è stato cancellato cosi' come richiesto dalla commissione Bilancio della Camera che altrimenti non avrebbe dato il suo parere favorevole al provvedimento. La soddisfazione di Amnesty International e Antigone La Sezione Italiana di Amnesty International e Antigone hanno accolto con soddisfazione l'approvazione odierna, da parte di tutti i gruppi politici della Camera dei deputati, del disegno di legge che introduce nel codice penale il reato di tortura. Si tratta, per le due associazioni, "di una buona notizia - è scritto in una nota - attesa da quasi vent'anni, da quando l'Italia, nel 1987, ratificò la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, obbligandosi pertanto ad adattare l'ordinamento interno attraverso l'introduzione di uno specifico reato di tortura". (fonte RAINEWS24 13/8) Fino ad oggi però non sono state adottate misure sistemiche per impedire violazioni dei diritti umani da parte della polizia, né per assicurare l’accertamento delle responsabilità. In particolare Il capo del sindacato CGIL della Polizia SILP, sig Felice Romano, in una recente intervista andata in onda a Presa Diretta, di Riccardo Iacona, ha dichiarato che: NESSUNO HA MAI SPIEGATO A UN POLIZIOTTO COME USARE LA FORZA PER ARRESTARE LA VIOLENZA OGGI NON ESISTE UN PROTOCOLLO CHE SPIEGHI COME INTERVENIRE. IL POLIZIOTTO FA 9 MESI INIZIALI DI FORMAZIONE E POI TUTTO VIENE LASCIATO AL SUO ARBITRIO. NON ESISTONO FONDI PER FARE AGGIORNAMENTO O NUOVA RIQUALIFICAZIONE E, QUANDO UN POLIZIOTTO È IN DIFFICOLTÀ O SOTTO STRESS, GLI PSICOLOGI A DISPOSIZIONE, NORMALMENTE LO ESAUTORANO DAL RUOLO, METTENDOLO IN UNA SITUAZIONE DI SOLITUDINE PROPRIO QUANDO DOVREBBE ESSERE SOSTENUTO, QUINDI LE RICHIESTE DI AIUTO DA PARTE DEL PERSONALE SONO RARE. MANCANO STRUMENTI FONDAMENTALI PER L’ACCERTAMENTO DELLE RESPONSABILITÀ, AD ESEMPIO LE TELECAMERE SULLE UNIFORMI, SUI MEZZI NEI LUOGHI IN CUI TRANSITANO LE PERSONE SOTTOPOSTE A FERMO. INOLTRE CI VORREBBE UN P.M. h24 NEGLI UFFICI DELLE STAZIONI DI POLIZIA. Le condizioni di detenzione e il trattamento dei detenuti in molti istituti di pena e altri centri detentivi sono state disumane e hanno violato i diritti dei detenuti, compreso il diritto alla salute CARCERI, STRASBURGO CONDANNA L'ITALIA - La Repubblica 8/1/ Napolitano: "Mortificante conferma" Trattamento inumano. Con questo verdetto la Corte europea dei diritti umani ha condannato il nostro Paese a pagare 100 mila euro per danni morali a sette detenuti nelle prigioni di Busto Arsizio e di Piacenza. Nella sentenza anche l'invito a porre rimedio immediatamente al sovraffollamento. Il ministro Severino: "Avvilita, ma me lo aspettavo.Vietato fare campagna elettorale sulla pelle dei detenuti" STRASBURGO - L'Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha quindi condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. La Corte ha inoltre condannato l'Italia a pagare ai sette detenuti un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali e ha dato al nostro Paese un anno di tempo per rimediare alla situazione carceraria.  Napolitano: "Mortificante conferma". "La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo" per l'Italia ed è "una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena", è stato il commento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato ha sottolineato che "la Corte chiarisce che non spetta ad essa dettare ai singoli Stati le normative penali né i criteri di organizzazione dei rispettivi sistemi penitenziari, ma ribadisce le raccomandazioni venute dal Consiglio d'Europa affinchè gli Stati prevedano adeguate misure alternative alla detenzione, riducendo il ricorso alla carcerazione. In questa direzione - ha ricordato Napolitano - il Parlamento avrebbe potuto, ancora alla vigilia dello scioglimento delle Camere, assumere decisioni, e purtroppo non l'ha fatto. La questione deve ora poter trovare primaria attenzione anche nel confronto programmatico tra le formazioni politiche che concorreranno alle elezioni del nuovo Parlamento così da essere poi rimessa alle Camere per deliberazioni rapide ed efficaci". Severino: "Avvilita, non stupita". "C'era da aspettarselo", sentenzia il ministro della Giustizia Paola Severino, "sono profondamente avvilita ma purtroppo l'odierna condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo non mi stupisce". "In questi tredici mesi di attività- spiega ancora Paola Severino - ho dato la priorità al problema carcerario: il decreto 'salva carceri', il primo provvedimento in materia di giustizia varato un anno fa dal Consiglio dei ministri e divenuto legge nel febbraio del 2012, ha consentito di tamponare una situazione drammatica. I primi risultati li stiamo constatando: i detenuti che nel novembre del 2011 erano Sono oggi scesi a In quanto il provvedimento ha inciso sul fenomeno delle cosiddette 'porte girevoli', vale a dire gli ingressi in carcere per soli due-tre giorni, e sulla durata della detenzione domiciliare allungata da 12 a 18 mesi". "Tuttavia - osserva il ministro - questa misura da sola non è sufficiente. Mentre continuiamo a lavorare sul piano edilizia carceraria, servono altre misure strutturali, come ci suggerisce la stessa Corte europea di Strasburgo. Il ddl del governo sulle misure alternative alla detenzione andava esattamente in questa direzione. Il Senato ha però ritenuto che non ci fossero le condizioni per approvare in via definitiva il provvedimento, seppure su di esso la Camera si fosse espressa ad amplissima maggioranza". "La mia amarezza, torno a ribadirlo, è grande - conclude Severino -: non è consentito a nessuno fare campagna elettorale sulla pelle dei detenuti. Continuerò a battermi, come ministro ancora per poche settimane e poi come cittadina, perché le condizioni delle persone detenute nelle nostre carceri siano degne di un paese civile". Corte Ue: "Sovraffollamento è strutturale". I giudici della Corte europea hanno constatato che il problema del sovraffollamento carcerario in Italia è di natura strutturale, e che il problema della mancanza di spazio nelle celle non riguarda solo i 7 ricorrenti: la Corte ha già ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti che sostengono di essere tenuti in celle dove avrebbero non più di 3 metri quadrati a disposizione. La richiesta europea all'Italia è quindi anche quella di dotarsi, entro un anno, di un sistema di ricorso interno che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e avere un risarcimento per la violazione dei loro diritti.  Con la sentenza emessa oggi l'Italia viene condannata una seconda volta per aver tenuto i detenuti in celle troppo piccole. La prima condanna risale al luglio del 2009 e riguardava un detenuto nel carcere di Rebibbia di Roma. Dopo questa prima condanna l'Italia ha messo a punto il "piano carceri" che prevede la costruzione di nuovi penitenziari e l'ampliamento di quelli esistenti oltre che il ricorso a pene alternative al carcere. Ma la sentenza europea di oggi tocca una ferita aperta. Il 6 gennaio un detenuto somalo di 38 anni, Mohamed Abdi, si è suicidato nel penitenziario di Borgo San Nicola, a Lecce, impiccandosi in una delle celle dell'infermeria. L'uomo era detenuto da circa un anno per reati contro il patrimonio. "I soccorsi dei pochi agenti lasciati nella programmazione dei servizio nella serata festiva di ieri, non sono serviti", ha racconta il vicesegretario del sindacato degli agenti di polizia penitenziaria Osapp, Domenico Mastrulli.  Mastrulli ha sottolineato come il carcere leccese sia vessato da vari problemi, "fra cui un sovraffollamento mai risolto". Ieri nella struttura erano reclusi in Lecce - ha sottolineato il sindacato - ha "il primato delle 'vittime' le cui responsabilità o le colpe non devono e non possono ricercarsi sull'anello più debole del sistema penitenziario italiano, ma vanno ricercate nel fallimento di un sistema dove ministro e capo dipartimento poco fanno nonostante la drammaticità dei penitenziari e della situazione del personale di polizia dipendente". Proprio L'Osapp ieri si è detto pronto "a dichiarare lo stato di agitazione, proteste su tutto il territorio con l'astensione dalla mensa di servizio". Ma anche manifestazioni in strada "per attirare la sensibilità dell'opinione pubblica". Radicali: "Centinaia di ricorsi in attesa". Il Comitato Radicale per la Giustizia "Piero Calamandrei" esprime "grande soddisfazione e, al contempo, grande sofferenza" per la condanna inflitta all'Italia. "Tre casi su sette, decisi dalla Corte con questa sentenza pilota, sono casi che abbiamo seguito nell'ambito dell'iniziativa assunta dal Comitato" spiega in una nota il segretario Giuseppe Rossodivita. Nel comunicato, si sottolinea come sia stata invitata dalla Corte Ue a individuare, entro un anno, una soluzione al sovraffollamento carcerario. "In questo contesto - spiega la nota - la Corte avvisa l'Italia che sono centinaia i ricorsi in attesa di essere decisi, che il loro numero è in continuo aumento e che la loro trattazione rimarrà sospesa per un anno in attesa dei provvedimenti che l'Italia adotterà". Ad aprile, il Senato ha reso pubblico un rapporto sullo stato delle prigioni e dei centri di detenzione per i migranti, documentando un grave sovraffollamento e l’incapacità di tutelare il rispetto della dignità umana e di altri obblighi internazionali. (17/12/2013 scandalo del trattamento antiscabbia a Lampedusa – 24/12 Cara di Mineo: denuncia di un operatore della Comunità di Sant’Egidio che lavora nel centro: giro di prostituzione gestito da dipendenti della struttura con la complicità di alcuni migranti 24 24

25 LA SITUAZIONE IN ITALIA (fonte A.I: R.A. 2013)
TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI: A) Il Parlamento ha approvato la ratifica del Protocollo Opzionale alla Convenzione contro la Tortura ma non ha introdotto il reato di tortura nel codice penale. B) Non sono state adottate misure sistemiche per impedire violazioni dei diritti umani da parte della polizia né per assicurare l’accertamento delle responsabilità. C) Le condizioni di detenzione e il trattamento dei detenuti in molti centri detentivi sono state disumane e hanno violato i diritti dei detenuti, compreso il diritto alla salute. D) Ad Aprile 2012, il Senato ha reso pubblico un rapporto sullo stato delle prigioni e dei centri di detenzione per i migranti, documentando un grave sovraffollamento e l’incapacità di tutelare il rispetto della dignità umana e di altri obblighi internazionali. Dal Rapporto Annuale Amnesty 2013 TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI A ottobre 2012, il parlamento ha approvato la ratifica del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ma non ha introdotto il reato di tortura nel codice penale, come la Convenzione richiede. L’ultimo passo sulla via del rispetto delle regole internazionali lo abbiamo fatto nell’autunno scorso, quando il governo Monti ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura (Opcat), depositato poi nell’aprile 2013 ed entrato in vigore un mese dopo. Un Protocollo che conferisce al Comitato Onu contro la tortura poteri effettivi e non più simbolici - di ispezione e monitoraggio - e impone ai Paesi aderenti l’istituzione entro un anno del National preventive mechanism (Npm), un meccanismo interno di controllo e garanzia dei diritti umani in tutti i luoghi di detenzione: non solo carceri ma anche caserme, centri per immigrati, reparti sanitari protetti, ecc. Entro maggio 2014, dunque, l’Italia dovrebbe anche dotarsi di uno strumento di questo tipo, come può essere l’istituzione del Garante nazionale dei detenuti, magari conferendo a questa figura maggiori poteri rispetto a quelli goduti dai garanti regionali. - See more at: Il 13 Agosto del 2013 è stata approvata la proposta di legge dall'Aula della Camera, che ora passa all'esame del Senato, che prevede che venga punito con il carcere da uno a 12 anni chi "con violenza o minacce gravi infligge ad una persona forti sofferenze fisiche o mentali, ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti allo scopo di ottenere da essa o da una terza persona informazioni e confessioni su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di aver compiuto". Ma il torturatore verra' condannato anche se il suo scopo è un altro, cioe' quello di "punire una persona per un atto che essa stessa o un'altra persona ha compiuto o e' sospettata di avere compiuto". Infine anche per 'motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa e sessuale". La pena, sara' aumentata se a torturare è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio e se dal fatto deriva "una lesione grave o gravissima". E' raddoppiata, infine, se la vittima muore. Il testo della commissione integra di fatto il reato di tortura affermando che è punito chiunque infligge forti sofferenze fisiche o mentali "ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti".  Inoltre si stabilisce che "non puo' essere assicurata l'immunita' diplomatica" al torturatore non italiano che potra' cosi' essere estradato. E che possa essere punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che tortura in un paese estero.  L’ articolo che prevedeva l'istituzione di un fondo per le vittime della tortura, è stato cancellato cosi' come richiesto dalla commissione Bilancio della Camera che altrimenti non avrebbe dato il suo parere favorevole al provvedimento. La soddisfazione di Amnesty International e Antigone La Sezione Italiana di Amnesty International e Antigone hanno accolto con soddisfazione l'approvazione odierna, da parte di tutti i gruppi politici della Camera dei deputati, del disegno di legge che introduce nel codice penale il reato di tortura. Si tratta, per le due associazioni, "di una buona notizia - è scritto in una nota - attesa da quasi vent'anni, da quando l'Italia, nel 1987, ratificò la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, obbligandosi pertanto ad adattare l'ordinamento interno attraverso l'introduzione di uno specifico reato di tortura". (fonte RAINEWS24 13/8) Fino ad oggi però non sono state adottate misure sistemiche per impedire violazioni dei diritti umani da parte della polizia, né per assicurare l’accertamento delle responsabilità. In particolare Il capo del sindacato CGIL della Polizia SILP, sig Felice Romano, in una recente intervista andata in onda a Presa Diretta, di Riccardo Iacona, ha dichiarato che: NESSUNO HA MAI SPIEGATO A UN POLIZIOTTO COME USARE LA FORZA PER ARRESTARE LA VIOLENZA OGGI NON ESISTE UN PROTOCOLLO CHE SPIEGHI COME INTERVENIRE. IL POLIZIOTTO FA 9 MESI INIZIALI DI FORMAZIONE E POI TUTTO VIENE LASCIATO AL SUO ARBITRIO. NON ESISTONO FONDI PER FARE AGGIORNAMENTO O NUOVA RIQUALIFICAZIONE E, QUANDO UN POLIZIOTTO È IN DIFFICOLTÀ O SOTTO STRESS, GLI PSICOLOGI A DISPOSIZIONE, NORMALMENTE LO ESAUTORANO DAL RUOLO, METTENDOLO IN UNA SITUAZIONE DI SOLITUDINE PROPRIO QUANDO DOVREBBE ESSERE SOSTENUTO, QUINDI LE RICHIESTE DI AIUTO DA PARTE DEL PERSONALE SONO RARE. MANCANO STRUMENTI FONDAMENTALI PER L’ACCERTAMENTO DELLE RESPONSABILITÀ, AD ESEMPIO LE TELECAMERE SULLE UNIFORMI, SUI MEZZI NEI LUOGHI IN CUI TRANSITANO LE PERSONE SOTTOPOSTE A FERMO. INOLTRE CI VORREBBE UN P.M. h24 NEGLI UFFICI DELLE STAZIONI DI POLIZIA. Le condizioni di detenzione e il trattamento dei detenuti in molti istituti di pena e altri centri detentivi sono state disumane e hanno violato i diritti dei detenuti, compreso il diritto alla salute CARCERI, STRASBURGO CONDANNA L'ITALIA - La Repubblica 8/1/ Napolitano: "Mortificante conferma" Trattamento inumano. Con questo verdetto la Corte europea dei diritti umani ha condannato il nostro Paese a pagare 100 mila euro per danni morali a sette detenuti nelle prigioni di Busto Arsizio e di Piacenza. Nella sentenza anche l'invito a porre rimedio immediatamente al sovraffollamento. Il ministro Severino: "Avvilita, ma me lo aspettavo.Vietato fare campagna elettorale sulla pelle dei detenuti" STRASBURGO - L'Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha quindi condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. La Corte ha inoltre condannato l'Italia a pagare ai sette detenuti un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali e ha dato al nostro Paese un anno di tempo per rimediare alla situazione carceraria.  Napolitano: "Mortificante conferma". "La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo" per l'Italia ed è "una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena", è stato il commento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato ha sottolineato che "la Corte chiarisce che non spetta ad essa dettare ai singoli Stati le normative penali né i criteri di organizzazione dei rispettivi sistemi penitenziari, ma ribadisce le raccomandazioni venute dal Consiglio d'Europa affinchè gli Stati prevedano adeguate misure alternative alla detenzione, riducendo il ricorso alla carcerazione. In questa direzione - ha ricordato Napolitano - il Parlamento avrebbe potuto, ancora alla vigilia dello scioglimento delle Camere, assumere decisioni, e purtroppo non l'ha fatto. La questione deve ora poter trovare primaria attenzione anche nel confronto programmatico tra le formazioni politiche che concorreranno alle elezioni del nuovo Parlamento così da essere poi rimessa alle Camere per deliberazioni rapide ed efficaci". Severino: "Avvilita, non stupita". "C'era da aspettarselo", sentenzia il ministro della Giustizia Paola Severino, "sono profondamente avvilita ma purtroppo l'odierna condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo non mi stupisce". "In questi tredici mesi di attività- spiega ancora Paola Severino - ho dato la priorità al problema carcerario: il decreto 'salva carceri', il primo provvedimento in materia di giustizia varato un anno fa dal Consiglio dei ministri e divenuto legge nel febbraio del 2012, ha consentito di tamponare una situazione drammatica. I primi risultati li stiamo constatando: i detenuti che nel novembre del 2011 erano Sono oggi scesi a In quanto il provvedimento ha inciso sul fenomeno delle cosiddette 'porte girevoli', vale a dire gli ingressi in carcere per soli due-tre giorni, e sulla durata della detenzione domiciliare allungata da 12 a 18 mesi". "Tuttavia - osserva il ministro - questa misura da sola non è sufficiente. Mentre continuiamo a lavorare sul piano edilizia carceraria, servono altre misure strutturali, come ci suggerisce la stessa Corte europea di Strasburgo. Il ddl del governo sulle misure alternative alla detenzione andava esattamente in questa direzione. Il Senato ha però ritenuto che non ci fossero le condizioni per approvare in via definitiva il provvedimento, seppure su di esso la Camera si fosse espressa ad amplissima maggioranza". "La mia amarezza, torno a ribadirlo, è grande - conclude Severino -: non è consentito a nessuno fare campagna elettorale sulla pelle dei detenuti. Continuerò a battermi, come ministro ancora per poche settimane e poi come cittadina, perché le condizioni delle persone detenute nelle nostre carceri siano degne di un paese civile". Corte Ue: "Sovraffollamento è strutturale". I giudici della Corte europea hanno constatato che il problema del sovraffollamento carcerario in Italia è di natura strutturale, e che il problema della mancanza di spazio nelle celle non riguarda solo i 7 ricorrenti: la Corte ha già ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti che sostengono di essere tenuti in celle dove avrebbero non più di 3 metri quadrati a disposizione. La richiesta europea all'Italia è quindi anche quella di dotarsi, entro un anno, di un sistema di ricorso interno che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e avere un risarcimento per la violazione dei loro diritti.  Con la sentenza emessa oggi l'Italia viene condannata una seconda volta per aver tenuto i detenuti in celle troppo piccole. La prima condanna risale al luglio del 2009 e riguardava un detenuto nel carcere di Rebibbia di Roma. Dopo questa prima condanna l'Italia ha messo a punto il "piano carceri" che prevede la costruzione di nuovi penitenziari e l'ampliamento di quelli esistenti oltre che il ricorso a pene alternative al carcere. Ma la sentenza europea di oggi tocca una ferita aperta. Il 6 gennaio un detenuto somalo di 38 anni, Mohamed Abdi, si è suicidato nel penitenziario di Borgo San Nicola, a Lecce, impiccandosi in una delle celle dell'infermeria. L'uomo era detenuto da circa un anno per reati contro il patrimonio. "I soccorsi dei pochi agenti lasciati nella programmazione dei servizio nella serata festiva di ieri, non sono serviti", ha racconta il vicesegretario del sindacato degli agenti di polizia penitenziaria Osapp, Domenico Mastrulli.  Mastrulli ha sottolineato come il carcere leccese sia vessato da vari problemi, "fra cui un sovraffollamento mai risolto". Ieri nella struttura erano reclusi in Lecce - ha sottolineato il sindacato - ha "il primato delle 'vittime' le cui responsabilità o le colpe non devono e non possono ricercarsi sull'anello più debole del sistema penitenziario italiano, ma vanno ricercate nel fallimento di un sistema dove ministro e capo dipartimento poco fanno nonostante la drammaticità dei penitenziari e della situazione del personale di polizia dipendente". Proprio L'Osapp ieri si è detto pronto "a dichiarare lo stato di agitazione, proteste su tutto il territorio con l'astensione dalla mensa di servizio". Ma anche manifestazioni in strada "per attirare la sensibilità dell'opinione pubblica". Radicali: "Centinaia di ricorsi in attesa". Il Comitato Radicale per la Giustizia "Piero Calamandrei" esprime "grande soddisfazione e, al contempo, grande sofferenza" per la condanna inflitta all'Italia. "Tre casi su sette, decisi dalla Corte con questa sentenza pilota, sono casi che abbiamo seguito nell'ambito dell'iniziativa assunta dal Comitato" spiega in una nota il segretario Giuseppe Rossodivita. Nel comunicato, si sottolinea come sia stata invitata dalla Corte Ue a individuare, entro un anno, una soluzione al sovraffollamento carcerario. "In questo contesto - spiega la nota - la Corte avvisa l'Italia che sono centinaia i ricorsi in attesa di essere decisi, che il loro numero è in continuo aumento e che la loro trattazione rimarrà sospesa per un anno in attesa dei provvedimenti che l'Italia adotterà". Ad aprile, il Senato ha reso pubblico un rapporto sullo stato delle prigioni e dei centri di detenzione per i migranti, documentando un grave sovraffollamento e l’incapacità di tutelare il rispetto della dignità umana e di altri obblighi internazionali. (17/12/2013 scandalo del trattamento antiscabbia a Lampedusa – 24/12 Cara di Mineo: denuncia di un operatore della Comunità di Sant’Egidio che lavora nel centro: giro di prostituzione gestito da dipendenti della struttura con la complicità di alcuni migranti 25 25

26 LA SITUAZIONE IN ITALIA (fonte A.I: R.A. 2013)
PROCESSI PER IL G8 DI GENOVA : Il 5 luglio 2012 (Diaz), la Corte suprema di Cassazione ha confermato tutte le 25 condanne emesse in appello contro alti funzionari e agenti di polizia responsabili delle torture e altri maltrattamenti inflitti a manifestanti il 21 luglio/01. Gli ufficiali superiori sono stati condannati a pene variabili dai cinque ai tre anni e otto mesi di reclusione, per aver falsificato i documenti d’arresto. Tuttavia, grazie a una legge d’indulto approvata per diminuire il numero dei detenuti, che prevede la riduzione di tre anni delle condanne, nessuno è stato incarcerato, sebbene tutti siano stati sospesi dal servizio per cinque anni. Le condanne in appello per lesioni personali gravi, inflitte a nove agenti, sono decadute, poiché la prescrizione è intervenuta prima della conclusione dell’appello in Cassazione, annullando così anche la sospensione dal servizio. Tutti i condannati, compresi quelli i cui reati erano prescritti, dovevano essere sottoposti a procedimenti disciplinari. Dal Rapporto Annuale Amnesty 2013 PROCESSI PER IL G8 DI GENOVA Il 5 luglio, la Corte suprema di cassazione ha confermato tutte le 25 condanne emesse in appello contro alti funzionari e agenti di polizia responsabili delle torture e altri maltrattamenti inflitti a manifestanti il 21 luglio Gli ufficiali superiori sono stati condannati a pene variabili dai cinque ai tre anni e otto mesi di reclusione, per aver falsificato i documenti d’arresto. Tuttavia, grazie a una legge d’indulto approvata per diminuire il numero dei detenuti, che prevede la riduzione di tre anni delle condanne, nessuno è stato incarcerato, sebbene tutti siano stati sospesi dal servizio per cinque anni. Le condanne in appello per lesioni personali gravi inflitte a nove agenti sono decadute, poiché la prescrizione è intervenuta prima della conclusione dell’appello in Cassazione, annullando così anche la sospensione dal servizio. Tutti i condannati, compresi quelli i cui reati erano prescritti, dovevano essere sottoposti a procedimenti disciplinari. Roma, 17 /6/2012 (TMNews) - Amnesty International Italia commentando la sentenza di CASSAZIONE SUI MALTRATTAMENTI DI BOLZANETO rileva come la mancanza del reato di tortura nel codice penale italiano abbia impedito ai giudici di punire i responsabili in modo proporzionato alla gravita' della condotta loro attribuita". In un comunicato l'associazione per la tutela dei diritti umani ricorda che "la Corte di Cassazione ha emesso oggi il verdetto definitivo sui maltrattamenti subiti nel luglio 2001, durante il G8 di Genova, da oltre 200 persone trasferite nel carcere provvisorio di Bolzaneto, dove furono costrette a rimanere per ore in posizioni dolorose, picchiate, minacciate di subire violenze e stupri e sottoposte a perquisizioni corporali eseguite in modo volutamente degradante e a ulteriori umiliazioni. La Corte ha ribadito in modo definitivo che a Bolzaneto furono commesse gravi violazioni dei diritti umani. Il verdetto odierno conferma le responsabilita' della maggior parte degli imputati, ma la prescrizione comporta la sostanziale impunita' per molti di loro". Amnesty sottolinea poi come "la mancanza del reato di tortura nel codice penale italiano abbia impedito ai giudici di punire i responsabili in modo proporzionato alla gravita' della condotta loro attribuita". Le responsabilita' accertate nei procedimenti giudiziari "coinvolgono un numero molto piccolo di coloro che parteciparono alle ingiustificabili violenze di massa poste in essere dalle forze di polizia, seguite da un'impunita' che perdura per centinaia degli agenti coinvolti. Vi e' stata, in questi anni, una vergognosa mancanza di assunzione di responsabilita' per i fallimenti politici e sistemici che hanno reso possibili le violenze. Non sono mai state fornite scuse alle vittime, ne' risultano a oggi aperti procedimenti disciplinari" sottolinea l'organizzazione. E Amnesty sottolinea ancora di ritenere "urgente e necessario che l'Italia si doti di strumenti adeguati a prevenire maltrattamenti e tortura da parte delle forze di polizia e ad investigarli in maniera efficace: tra questi, oltre al gia' ricordato reato di tortura, occorre un meccanismo di prevenzione indipendente come richiesto dai trattati internazionali a cui l'Italia ha aderito e, in particolare, dal Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, ratificato dall'Italia nel 2013". ["Le richieste dei provvedimenti legislativi e delle misure necessarie a prevenire l'impunita' delle forze di polizia fanno parte dell'Agenda in 10 punti che Amnesty International ha sottoposto in vista delle ultime elezioni politiche a tutti i candidati e ai leader delle forze politiche in lizza, lanciando la campagna 'Ricordati che devi rispondere'. L'Agenda e' stata sottoscritta da 440 candidati, di cui 117 sono stati poi eletti al parlamento“. In conclusione, Amnesty "chiede il rispetto degli impegni presi da parte dei singoli parlamentari, nonche' di tutti i leader che compongono il governo cosiddetto di larghe intese (Pd, Pdl, Scelta Civica, Partito radicale) in merito ai 10 punti della sua Agenda. L'organizzazione per i diritti umani sottolinea, in particolare, che tutti i leader delle forze politiche e dei partiti rappresentati nel governo si sono impegnati per l'introduzione di misure che garantiscano la trasparenza dell'operato delle forze di polizia e per l'introduzione del reato di tortura (punto 1 dell'Agenda) e si aspetta dunque che questo impegno sia mantenuto".] Le sentenze relative ai processi del G di Genova, evidenziano il fatto che sia indespensabile prevedere il reato di tortura nel CP se si vogliono assicurare giustizia e risarcimenti alle vittime. La previsione del reato di tortura è obbligatorio per l’Italia da quando, 25 anni fa, ha sottoscritto la CAT. Infatti La Convenzione contro la tortura e altre pene e trattamenti crudeli, inumani e degradanti approvata dalla Nazioni Unite nel 1984 impone, all’art. 4, l’obbligo per gli Stati parte di provvedere affinché qualsiasi atto di tortura sia previsto dal proprio diritto penale nazionale come un reato sanzionato con pene adeguate e proporzionate alla gravità del comportamento. Sebbene per alcuni anni si sia tentato di minimizzare la portata di questo obbligo internazionale, ad oggi sembra prevalere una interpretazione rigorosa e ampia dell’art. 4 della Convenzione contro la tortura: ai fini dell’adempimento di tale obbligo non sarebbe, infatti, sufficiente la mera esistenza nell’ordinamento penale nazionale di una qualunque norma (sia essa un solo e generico articolo oppure un insieme di fattispecie penali combinate tra loro) capace di sanzionare e reprimere tra gli altri illeciti anche gli atti di tortura, ma sarebbe invece indispensabile l’adozione da parte degli ordinamenti penali nazionali di un autonomo e specifico reato idoneo a dare una risposta adeguata e proporzionata all’enorme gravità degli atti di tortura. Nel 1988, l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene e trattamenti crudeli, inumani e degradanti (con la legge n. 489 del 1988) e sebbene ciclicamente vengano presentati in Parlamento disegni di legge finalizzati all’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento penale italiano, altrettanto ciclicamente questi sono insabbiati, ignorati o bocciati. Ad oggi, quindi, a 25 anni dalla ratifica, l’Italia non si è ancora dotata di un autonomo e specifico reato e gli atti rientranti nella qualificazione giuridica di tortura, così come descritta dalla Convenzione ONU, sono configurabili dal nostro codice penale come mere lesioni personali, percosse, violenze private, minacce e ingiurie perpetrate con abuso d’ufficio e abuso d’autorità contro arrestati e detenuti. Eppure, anche il tentativo sperimentato da alcuni giudici di punire condotte così gravi e complesse attraverso il cumulo di più fattispecie criminali rappresenta una risposta inadeguata rispetto all’enorme serietà delle violazioni capaci di incidere sulla dignità delle persone sottoposte a tortura, sulla loro integrità fisica e psicologica fino ad arrivare, talvolta, a compromettere anche la vita stessa. Una risposta inadeguata perché la sanzione prevista per tali reati, pur se sommati, rimane di lieve entità; inadeguata perché per pene inferiori ai due anni di reclusione è possibile beneficiare della sospensione condizionale della condanna ed evitare, quindi, il carcere; infine, inadeguata perché tali reati sono suscettibili a prescriversi in un assai breve lasso temporale (mediamente 5 anni). Ecco come si garantisce l’impunità per uno dei più odiosi crimini internazionali. Queste carenze lasciano le vittime di maltrattamenti da parte delle forze di polizia e le loro famiglie prive di strumenti di garanzia e di una giustizia piena, hanno determinato una sostanziale impunità per gli agenti di polizia accusati di gravi violazioni dei dd uu e hanno creato un contesto complessivamente sfavorevole al riconoscimento sociale della polizia, come attore centrale nella protezione dei dd uu. 24ORE Roma 15:56 G8 Genova: Cassazione, risarcimenti per vittime Bolzaneto No alla sospensione dei risarcimenti a favore delle vittime delle violenze avvenute nella caserma di Bolzaneto, nei giorni successivi al G8 di Genova del La quinta sezione penale della Cassazione ha infatti rigettato i ricorsi, con i quali si chiedeva la sospensione dell'esecutivita' delle condanne civili stabilite dalla Corte d'appello di Genova il 5 marzo In appello, i giudici del capoluogo ligure avevano dichiarato prescritti i reati contestati alla maggior parte degli imputati (su un totale di 44, solo 7 vennero condannati in sede penale), ma stabilirono che tutti dovevano risarcire chi aveva subito violenze. Le parti civili (circa 150 persone) aspettano dunque da tempo i risarcimenti da parte dei 44 imputati - poliziotti, carabinieri, agenti e medici della penitenziaria -, nonche' dai ministeri dell'Interno, della Difesa e della Giustizia. I risarcimenti ammonterebbero a quasi 10 milioni di euro, comprendendo anche il pagamento delle spese legali. . (31 maggio 2012) Sentenza della Corte di Cassazione per i FATTI DELLA SCUOLA DIAZ: importante ma incompleta e tardiva secondo Amnesty International CS81: 05/07/2012 Quella emessa oggi dalla Corte di Cassazione su quanto accaduto alla scuola Diaz di Genova nel luglio 2001 è, per Amnesty International, una sentenza importante, che finalmente e definitivamente, anche se molto tardi, riconosce che agenti e funzionari dello stato si resero colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani di persone che avrebbero dovuto proteggere.    Tuttavia, Amnesty International ricorda che i fallimenti e le omissioni dello stato nel rendere pienamente giustizia alle vittime delle violenze del G8 di Genova sono di tale entità che queste condanne lasciano comunque l'amaro in bocca: arrivano tardi, con pene che non riflettono la gravità dei crimini accertati - e che in buona parte non verranno eseguite a causa della prescrizione - e a seguito di attività investigative difficili ed ostacolate da agenti e dirigenti di polizia che avrebbero dovuto sentire il dovere di contribuire all'accertamento di fatti tanto gravi. Soprattutto, queste condanne coinvolgono un numero molto piccolo di coloro che parteciparono alle violenze ed alle attività criminali volte a nascondere i reati compiuti.   Per Amnesty International, la conclusione di questo difficile processo non può rappresentare la fine del tentativo di dare piena giustizia alle vittime del G8 di Genova. Terminata la fase degli accertamenti delle responsabilità individuali, resta infatti tutta da fare un'analisi che porti a conclusioni condivise su cosa non funzionò a Genova nel 2001 a livello di sistema e su come fare in modo che ciò non si ripeta più.   Amnesty International continuerà a chiedere alle istituzioni italiane di:   · condannare pubblicamente le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia 11 anni fa e fornire scuse alle vittime;   · impegnarsi ad assicurare che violazioni quali quelle accadute a Genova nel 2001 non si verifichino di nuovo attraverso l'attuazione di misure concrete per garantire l'accertamento delle responsabilità per tutte le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia;   · introdurre nel codice penale il reato di tortura e adottare una definizione di tortura che includa tutte le caratteristiche descritte nell'articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura;   · creare un'Istituzione nazionale sui diritti umani in linea coi "Principi riguardanti lo statuto delle istituzioni nazionali" (Principi di Parigi);   · ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e istituire un meccanismo indipendente nazionale per prevenire torture e maltrattamenti (fatto);   · condurre una revisione approfondita delle disposizioni in vigore nelle operazioni di ordine pubblico, incluse quelle in materia di addestramento e dispiegamento delle forze di polizia impiegate nelle manifestazioni, di uso della forza e delle armi da fuoco e che tenga conto della necessità di introdurre elementi di identificazione individuale degli appartenenti alle forze di polizia nelle operazioni di ordine pubblico. FINE DEL COMUNICATO                                                                                   Roma, 5 luglio 2012 L’Espresso 2/1/2014 GIUSTIZIA G8 di Genova, agli arresti i poliziotti responsabili del massacro della Diaz Undici uomini delle forze dell'ordine sono stati arrestati fra metà dicembre e Capodanno per il processo nato dall'irruzione del 21 luglio 2001 nella scuola di Genova in cui vennero picchiati oltre 90 manifestanti. Fra loro, anche Spartaco Mortola e Francesco Gratteri Sono passati tredici anni dalla notte in cui quattrocento uomini in divisa fecero irruzione nella scuola Armando Diaz di Genova. Tredici anni da quando 90 persone (almeno) fra le centinaia di manifestanti contro il G8 che dormivano nella scuola vennero picchiate selvaggiamente, una ridotta in coma, altre fermate. In questi giorni - tra metà dicembre e Capodanno - undici poliziotti sono finiti in arresto per quello che successe quella notte, come racconta il Secolo XIX . Tutti e undici sono sotto accusa non per le lesioni provocate (reato ormai prescritto), ma per aver falsificato prove e verbali per giustificare l'irruzione violenta del 21 luglio del Agli arresti sono finiti, tra gli altri, come riferisce il Secolo, Spartaco Mortola - ai tempi del G8 a capo della Digos di Genova -, Giovanni Luperi - ex capo analista dei servizi segreti - e Francesco Gratteri, numero tre tre dellla Polizia di Stato prima della condanna e ora costretto a un anno di arresti domiciliari. GENOVA24.IT ARTICOLO N° DEL 31/12/ :11 Blitz alla Diaz, anche l’ex capo dello Sco Francesco Gratteri sconterà pena ai domiciliari Genova. Il Tribunale di sorveglianza di Genova ha concesso gli arresti domiciliari a Francesco Gratteri ex capo dello Sco condannato definitivamente dalla Cassazione per i fatti del G8 di Genova. Il Tribunale non ha invece accolto la richiesta, avanzata dal legale di Gratteri, per l’affidamento in prova ai servizi sociali. Gratteri trascorrerà dunque l’anno di pena che gli rimane da scontare agli arresti domiciliari.. grazie alla legge “svuotacarceri” dell’ex Guardasigilli Severino che consente di scontare presso il proprio domicilio un residuo di pena non superiore a un anno e mezzo Gratteri era stato condannato in via definitiva a 4 anni di reclusione per falso e calunnia, ma tre anni di pena sono “scontati” grazie all’indulto. Gratteri si era presentato di fronte al tribunale di sorveglianza lo scorso 5 dicembre insieme all’ex capo dell’Ucigos Giovanni Luperi, l’ex capo della Digos genovese Spartaco Mortola e Pietro Troiani, tutti condannati per i fatti della Diaz. Anche per loro la decisione dovrebbe arrivare a breve. Per quanto riguarda gli altri condannati per i fatti della Diaz, il tribunale di sorveglianza genovese aveva già deciso i domiciliari per sei funzionari e agenti di polizia condannati in via definitiva per il blitz alla scuola Diaz: si tratta di Filippo Ferri (all’epoca del G8 capo della squadra mobile di La Spezia, nei giorni scorsi reclutato dal Milan come “tutor” di Balotelli), Fabio Ciccimarra (all’epoca dirigente della questura di Napoli), Nando Dominici (all’epoca capo della squadra mobile di Genova), Salvatore Gava (all’epoca funzionario della squadra mobile di Sassari), Massimo Nucera (agente del VII Nucleo del Reparto mobile di Roma, che denunciò falsamente di essere stato colpito da una coltellata) e il collega Maurizio Panzieri. A un settimo condannato, Carlo Di Sarro, all’epoca funzionario della Digos del capoluogo ligure, il tribunale di sorveglianza di Genova ha concesso l’affidamento in prova ai servizi sociali. Redazione 26 26

27 DIAZ 21/07/01 27

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29 LA SITUAZIONE IN ITALIA
(fonte A.I: Rapporto Annuale 2013) UCCISIONI ILLEGALI: L’inadeguatezza delle indagini su alcuni decessi durante la custodia hanno impedito l’accertamento delle responsabilità di agenti di polizia e guardie carcerarie. Sono stati sollevati timori per il fatto che le forze di polizia municipali fossero state dotate di armi da fuoco senza adeguate salvaguardie e che queste venissero impiegate in modo non conforme al diritto Internazionale. Dal Rapporto Annuale Amnesty 2013 UCCISIONI ILLEGALI L’inadeguatezza delle indagini su alcuni decessi durante la custodia hanno impedito l’accertamento delle responsabilità di agenti di polizia e guardie carcerarie. Sono stati sollevati timori per il fatto che le forze di polizia municipali fossero state dotate di armi da fuoco senza adeguate salvaguardie e che queste venissero impiegate in modo non conforme al diritto internazionale. Il 13 febbraio, il ventottenne cileno Marcelo Valentino Gómez Cortès, che era disarmato, è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco esplosi da un agente della polizia municipale di Milano. A ottobre, l’agente è stato riconosciuto colpevole di omicidio dopo il processo di primo grado e condannato a 10 anni di carcere. L’agente ha presentato appello contro la sentenza, dopo la quale è stato assegnato a funzioni d’ufficio e gli è stato revocato il porto d’armi. A marzo, un agente di custodia è stato ritenuto colpevole di omissione di soccorso e di falsificazione di atti d’ufficio per la morte di Aldo Bianzino, deceduto nel 2007 in un carcere di Perugia due giorni dopo l’arresto. L’agente è stato condannato a 18 mesi di reclusione con sospensione della pena. Il processo ha rivelato le lacune dell’indagine iniziale sul decesso. La famiglia ha portato avanti una campagna per la riapertura del caso. Ad aprile, un giudice di primo grado ha prosciolto un medico dall’accusa di omicidio colposo, per aver prescritto un farmaco sbagliato a Giuseppe Uva, morto poco dopo essere stato fermato dalla polizia a Varese, nel Il giudice ha ordinato una nuova indagine sul periodo intercorso dal momento dell’arresto all’arrivo in ospedale. L’autopsia eseguita nel dicembre 2011 aveva rivelato che la vittima poteva essere stata stuprata e sottoposta a maltrattamenti. Sono state registrate frequenti denunce di tortura e di altri maltrattamenti commessi da agenti delle forze di polizia, nonché segnalazioni di decessi avvenuti in carcere in circostanze controverse. 29 29

30 * Aggiornamento al 14 agosto 2013
CUSTODIRE, TENERE IN CUSTODIA, SERBARE CON CURA Anni Suicidi Totale morti 2000 61 165 2001 69 177 2002 52 160 2003 56 157 2004 156 2005 57 172 2006 50 134 2007 45 123 2008 46 142 2009 72 2010 66 184 2011 186 2012 60 154 2013 * 34 102 Tot. 786 2.189 In quasi 13 anni nelle carceri italiane sono morti più di 2100 detenuti: a causa di suicidi (circa un terzo del totale), assistenza sanitaria insufficiente, overdose o per cause non chiare . Secondo il Rapporto Annuale 2013 di Amnesty International, continuano a emergere casi che chiamano in causa le responsabilità della polizia per uno uso scorretto della forza o delle armi e non sono cessate le denunce di maltrattamenti. Tra i casi più eclatanti accaduti negli ultimi 10 anni ricordiamo Lo Stato che, detiene una persona ha il compito di custodirla, nel senso di tenerla in custodia, ma anche nel senso di conservarla, serbarla con cura e difenderla. La libertà personale è inviolabile eppure può essere legittimamente limitata dagli ufficiali dello Stato dopo una sentenza penale di condanna irrevocabile, oppure prima e a prescindere da una sentenza penale di condanna, quando una persona è sottoposta a misure restrittive della propria libertà personale per motivi di interesse generale adottate in seguito ad un atto motivato dell’autorità giudiziaria. In casi eccezionali e di urgenza, ad esempio quando si esegue un arresto in flagranza di reato, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvisoriamente delle misure restrittive della libertà personale che devono essere convalidate dall’autorità giudiziaria entro 48 ore, a pena di invalidità Anche la carcerazione preventiva è una limitazione della libertà personale. Normalmente disposta nei confronti di una persona in attesa di giudizio, in caso di pericolo di fuga del presunto reo; nel caso di pericolo di reiterazione del reato e, infine, nel caso di pericolo di turbamento delle indagini. In Italia il più del 40% dei detenuti è in attesa di giudizio (dati comunicati dal Ministro Paola Severino in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, 26 gennaio 2012 e confermati dalle rivelazioni svolte nel 2013). Detto ciò nella nostra Costituzione è scritto che , è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà (artt. 13, quarto comma, Costituzione) e le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (27, terzo comma, Costituzione Mentre l’art 1 della legge 354 del sull’ordinamento penitenziario garantisce che Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona Dignità e incolumità fisica sono i beni che devono essere tutelati. La limitazione della libertà personale da parte dello Stato, non significa affatto sospensione di tutte le libertà fondamentali dell’individuo, non significa che il detenuto, il fermato o l’arrestato non è più persona. Tutti gli altri diritti che appartengono a tutti in quanto esseri umani non risultano annullati, semmai inevitabilmente compressi funzionalmente allo stato di detenzione (ad esempio la libertà di circolazione) o alle esigenze di mantenimento dell’ordine e della sicurezza in carcere (in alcuni casi, ad esempio, la libertà di comunicazione e corrispondenza). Sono vietati in modo assoluto e inderogabile la tortura e qualsiasi pena o trattamento crudele, inumano o degradante: non esistono circostanze (né la guerra, né emergenze di ordine pubblico, né esigenze di sicurezza collettiva contro il terrorismo) che possano giustificare il ricorso alla tortura. La libertà dalla tortura è un diritto umano fondamentale riconosciuto da numerose altre convenzioni sovranazionali quali le Convenzioni di Ginevra (articolo 3 comune) del 1949, la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici del 1966 e la Convenzione europea sui diritti umani del 1950. 30 * Aggiornamento al 14 agosto 2013 30

31 LA SITUAZIONE IN ITALIA
(fonte A.I: Rapporto Annuale 2013) UCCISIONI ILLEGALI: A marzo 2012 , un agente di custodia è stato ritenuto colpevole di omissione di soccorso e di falsificazione di atti d’ufficio per la morte di Aldo Bianzino, deceduto nel 2007 in un carcere di Perugia due giorni dopo l’arresto. Un referto medico redatto al momento del fermo lo giudica in buona salute, due giorni dopo, l’autopsia disposta dopo la morte, rivela un’emorragia cerebrale e lesioni al fegato. Ciò nonostante l’indagine viene archiviata e il procedimento per omicidio contro ignoti è stato chiuso nel 2009. L’agente è stato condannato a 18 mesi di reclusione con sospensione della pena. Il processo ha rivelato le lacune dell’indagine iniziale sul decesso. La famiglia ha portato avanti una campagna per la riapertura del caso. ALDO BIANZINO, un falegname che non fa politica, 44 anni, viene trovato morto domenica 14 ottobre, nella sua cella di isolamento all’interno del carcere di Capanne a Perugia;  - Aldo viene arrestato venerdì 12 ottobre a Pietralunga, nella sua casa di campagna vicino Città di Castello, per coltivazione e detenzione di canapa indiana e trasferito nella stessa giornata al carcere di Capanne a Perugia, dove deve restare in isolamento almeno fino a lunedì 15 ottobre, quando incontrerà il giudice titolare dell’inchiesta;  - sabato 13 ottobre alle ore 14 il legale d’ufficio incontra Aldo e riferisce alla moglie di averlo trovato in buona salute;  - domenica 14 ottobre, al mattino, la famiglia viene informata che Aldo è morto;  - subito viene diffusa la notizia (vi è un primo referto medico redatto dal personale del carcere?) che Aldo sarebbe morto per malattie cardiache e non presenterebbe segni esterni di violenza;  - conoscendo Aldo come persona sana, la famiglia non ci crede e chiede l’autopsia;  - l’autopsia viene affidata al dott. Lalli, un medico legale noto per essere eticamente irreprensibile e dal cui esame risulta che Aldo è morto per cause non accidentali e che il suo cadavere presenta chiari segni di lesioni traumatiche: 4 ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, 2 costole fratturate.  - il giudice Petrazzini (lo stesso che aveva condotto l’inchiesta sulla coltivazione e detenzione di canapa indiana) apre formalmente una indagine per omicidio volontario.  Aldo Bianzino, ingiustizia è fatta 6 marzo 2012  Stella Spinelli “Rispettiamo la sentenza ma mastichiamo amaro. Non volevamo contentini: sappiamo che nostro padre poteva essere salvato. Sappiamo anche che i consulenti del Pm si sono brutalmente smentiti sulle cause di morte di nostro padre. Il tribunale non ha potuto disporre la perizia perché il Pm ha ostinatamente negato la modifica del capo di imputazione. Ha vinto lui, ma secondo noi non dovrebbe esserne fiero. Ci dispiace per nostro papà”. Elia e Rudra Bianzino commentano così la sentenza del processo per la morte del loro padre, Aldo, deceduto nel carcere perugino di Capanne il 14 ottobre Una sentenza che stabilisce la condanna a un anno e mezzo con pena sospesa di Gianluca Cantoro, una guardia carceraria, colpevole di omissione di soccorso, falso e omissione di atti d’ufficio. Pena ridicola se confrontata alla gravità del reato. Perché quella notte le cose andarono diversamente da come si ostina a raccontarle la guardia del carcere. Aldo Bianzino non morì all’improvviso per la rottura di un aneurisma celebrale – come hanno cercato di dimostrare, senza riuscirci, i periti della difesa della guardia carceraria – ma si è spento lentamente e fra atroci dolori per un’emorragia cerebrale detta subaracnoidea, dalla quale avrebbe potuto salvarsi se accompagnato d’urgenza in ospedale. Invece, nonostante le urla e i lamenti del prigioniero – in carcere perché in possesso di alcune piantine di canapa indiana – nessuno corse in suo aiuto. Cantoro finse di non sentire e il medico non arrivò se non per constatare il decesso. Sin da subito, l’agente ha cercato di truccare e i registri per camuffare la sua colpa e l’amministrazione carceraria – nel panico per l’accaduto – prima ha creduto alla tesi di un complotto di detenuti contro la polizia penitenziaria, poi alla versione del campanello d’emergenza rotto. I legali e i periti della famiglia Bianzino hanno spiegato con chiarezza in aula, documenti alla mano, che Aldo avrebbe potuto salvarsi vista la vicinanza al carcere di Capanne di un ottimo ospedale, quindi, come precisa il legale Fabio Anselmo, “la negazione del soccorso a una persona imprigionata altro non è che tortura, alla faccia dell’articolo 13 della Costituzione”. Una verità che non smettono di gridare quelli del Comitato Verità per Aldo, che mai hanno smesso di sostenere Elia E Rudra e mai si placheranno finché non sarà fatta Giustizia. Ma quella con l g maiuscola. Perché su questo caso si adombrano anche forti sospetti di torture fisiche subite prima del decesso. Sospetti che è stato impossibile verificare, visto che il giudice ha archiviato la faccenda e dunque gli accertamenti incrociati sul legame fra le cause della morte, la colpa del secondino e l’eventuale compartecipazione di chi disponeva delle chiavi della cella. Perché l’agente condannato non le aveva, quindi non c’entra con le botte, tante, date ad Aldo e i cui segni erano evidenti sul cadavere. L’autopsia, affidata a Lalli, un medico legale noto per essere eticamente irreprensibile, paralva chiaro: Aldo è morto per cause non accidentali e il suo cadavere presentava chiari segni di lesioni traumatiche. Quattro ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, due costole fratturate. Eppure il pm, Giuseppe Petrazzini, che ha comunque incentrato 65 domande su 120 sulle cause della morte, ha poi rinunciato a dimostrare che Aldo avrebbe potuto essere salvato, evitando quindi di aggravare il capo d’imputazione contro l’agente di polizia penitenziaria che avrebbe previsto il doppio della pena dato che dall’omissione di soccorso è scaturita la morte. Il tutto con il risultato che ai figli di un uomo entrato in carcere in perfetta salute e morto in poche ore non è restato che la rabbia e la frustrazione. La sentenza è comunque un passo avanti verso la Verità, che resta però ancora tutta da appurare. Fuori e dentro il tribunale, a sostenere i familiari di Bianzino, non sono mai mancati Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldovrandi, e Lucia Uva, sorella di Giuseppe. Tutte vittime di Stato ancora in attesa di verità e giustizia. «Siamo qui compatti perché le nostre storie, pur nelle loro diversità, sono simili ed uguali se teniamo conto di ciò che subiscono le nostre famiglie nelle aule di tribunale – ha detto Ilaria Cucchi -. In questi processi abbiamo la sensazione di essere soli contro tutti, talvolta anche contro i pubblici ministeri. Ma essere qui, uniti, ci dà la forza di andare avanti». “Il caso Bianzino è tutt’altro che chiuso. – hanno quindi concluso i figli di Aldo -. Ora ci attendiamo che il pm ne prenda finalmente atto fino a che non sia troppo tardi. Altrimenti avremo fatto tutto questo percorso processuale faticoso e costoso durato oltre un anno per nulla. La giustizia non si può permettere di fare questioni di principio o di cavalcare posizioni improbabili il cui distacco dalla verità dei fatti è ormai sotto gli occhi di tutti. L’ordinanza riconosce la giustezza dei nostri dubbi sul fatto che nostro padre potesse essere salvato e anche sulla possibile origine traumatica sull’emorragia che lo ha ucciso. Facciamo questo in memoria di questo padre, consegnato allo Stato vivo ed in perfette condizioni di salute e restituitoci dallo Stato morto”. 31 31

32 LA SITUAZIONE IN ITALIA
(fonte A.I: Rapporto Annuale 2013) UCCISIONI ILLEGALI: Ad aprile, un giudice di primo grado ha prosciolto un medico dall’accusa di omicidio colposo, per aver prescritto un farmaco sbagliato a Giuseppe Uva, morto poco dopo essere stato fermato dai Carabinieri a Varese, nel 2008. AMNESTY INTERNATIONAL CS /06/2013 Il 14 giugno 2013 saranno trascorsi cinque anni dalla morte di GIUSEPPE UVA, un uomo di 43 anni fermato alle 3 del mattino del 14 giugno 2008 a Varese. Insieme a un amico, Alberto Biggiogero, Giuseppe Uva venne portato in una caserma dei Carabinieri, da cui partì una richiesta di trattamento sanitario obbligatorio (Tso) a seguito della quale venne trasportato al pronto soccorso alle prime luci dell'alba. Successivamente, fu trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese, dove trascorse le ultime ore prima della morte, avvenuta nella mattinata.    A cinque anni dalla morte di Giuseppe Uva, Amnesty International Italia rileva quanto l'accertamento della verità sia ancora lontano.    Sulla morte di Giuseppe Uva sono stati aperti due procedimenti nei confronti del personale medico delle strutture presso le quali l'uomo venne trasferito, chiusi in primo grado con l'assoluzione degli imputati. Sull'intera vicenda rischia di cadere la prescrizione, in data 16 giugno   Il giudice di I grado ha rilevato la lacunosità dell'ipotesi accusatoria formulata dal pubblico ministero verso il personale medico, notando che essa poggiava "su basi talmente fragili da rendere francamente impossibile un qualsivoglia fondato giudizio sul merito dell'accusa (...)", lasciando invece "oscure le ragioni per le quali un soggetto di soli 43 anni (...) potesse essere giunto a morte a poche ore di distanza dal 'trattenimento' operato nei suoi confronti dalle forze dell'ordine".    Di fronte al mancato approfondimento, in fase di indagine, di quanto accaduto nel periodo trascorso tra l'intervento dei Carabinieri e l'ingresso di Giuseppe Uva al pronto soccorso, Amnesty International Italia esprime preoccupazione che le indagini portate avanti finora non siano conformi agli obblighi di efficacia, indipendenza, tempestività e completezza che gli standard internazionali impongono agli stati, a fronte del decesso di una persona che si è trovata nelle mani delle forze di polizia.   Al contempo, l'organizzazione per i diritti umani rileva la costante stigmatizzazione nei confronti dei familiari di Giuseppe Uva, la cui sorella Lucia è stata querelata per diffamazione e risulta per questo indagata dalla stessa procura che ha la titolarità delle indagini sula morte di suo fratello.   Le vicende processuali del caso di Giuseppe Uva costituiscono per Amnesty International Italia un ulteriore segnale che è urgente, necessario e non più differibile che il paese si doti di strumenti adeguati a prevenire morti in custodia, maltrattamenti e tortura da parte delle forze di polizia e ad investigarli in maniera efficace: tra questi, il reato di tortura e un meccanismo di prevenzione indipendente come richiesto dai trattati internazionali a cui l'Italia ha aderito e, in particolare, dal Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, ratificato dall'Italia nel 2013, come richiesto per anni da Amnesty International nei suoi appelli alle istituzioni italiane.   Le richieste dei provvedimenti legislativi e delle misure necessarie a prevenire l'impunità delle forze di polizia fanno parte dell'Agenda in 10 punti che Amnesty International ha sottoposto in vista delle ultime elezioni politiche a tutti i candidati e ai leader delle forze politiche in lizza, lanciando la campagna "Ricordati che devi rispondere".   L'Agenda è stata sottoscritta da 440 candidati, di cui 117 sono stati poi eletti al parlamento.    Amnesty International Italia chiede il rispetto degli impegni presi da parte dei singoli parlamentari, nonché di tutti i leader che compongono il governo cosiddetto di larghe intese (Pd, Pdl, Scelta Civica, Partito radicale) in merito ai 10 punti della sua Agenda. L'organizzazione per i diritti umani sottolinea, in particolare, che tutti i leader delle forze politiche e dei partiti rappresentati nel governo si sono impegnati per l'introduzione di misure che garantiscano la trasparenza dell'operato delle forze di polizia e per l'introduzione del reato di tortura (punto 1 dell'Agenda) e si aspetta dunque che questo impegno sia mantenuto. FINE DEL COMUNICATO                                                   Roma, 13 giugno 2013 La morte di Uva e la caserma dei misteri di Filippo Vendemmiati  Che cosa è successo la notte tra il 13 e il 14 luglio del 2008 nella caserma dei carabinieri di Varese? Giuseppe Uva vi rimase per tre ore, poi fu trasferito in ospedale e morì. Da anni i famigliari del 43enne chiedono di sapere, chiedono indagini, chiedono risposte ai troppi misteri e ai tanti dubbi che avvolgono questa vicenda. Ma c’è anche una sentenza che invita a far luce: il 28 giugno dell’anno scorso il giudice Orazio Muscato ha assolto un medico accusato di aver provocato la morte di Uva in seguito alla somministrazione di un farmaco. Le cause del decesso vanno individuate “in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all’agitazione da intossicazione alcolica acuta”. Il tribunale, unitamente all’assoluzione del medico, ha inviato gli atti al pubblico ministero con particolare riferimento a quanto accaduto prima dell’ingresso di Giuseppe Uva in ospedale, ovvero a quanto successo nella caserma dei carabinieri. Le parole del giudice, scritte nella motivazione della sentenza, sono perentorie e non lasciano adito ad equivoci: “Costituisce un legittimo diritto dei congiunti di Giuseppe Uva, conoscere se negli accadimenti intervenuti antecedentemente all’ingresso del loro congiunto in ospedale, siano ravvisabili profili di reato; e ciò tenuto conto che permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta essere staro redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia  per disturbo della quieta pubblica, è stato prelevato e portato in caserma, così come tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all’interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono anche alcune volanti della polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di in intervento particolarmente invasivo quale il Trattamento Sanitario Obbligatorio. “Dunque secondo il giudice Orazio Muscato se si vuole stabilire con precisione le cause o le concause della morte bisogna ricostruire quanto è successo nella caserma, “occorre disporre della fotografia delle condizioni nelle quali versava Uva al momento del suo ingresso in ospedale, mentre del tutto superflui ed irrilevanti sono gli accertamenti tesi a verificare le ragioni in base alle quali è giunto in Ospedale in quelle condizioni”. E’ stata mai fatta questa indagine? Non è dato saperlo, perché se è stata condotta o se è ancora in corso, i suoi esiti sono sconosciuti, tecnicamente coperti del segreto istruttorio. C’è un fascicolo aperto dal pubblico ministero Agostino Abate che risale al settembre del 2009 e sui cui non figurano persone indagate. Abate è lo stesso magistrato, pubblico ministero nel processo che ha assolto il medico, ed è a lui che il giudice si rivolge  con un invito pressante ad indagare e rendere noti gli esiti dell’inchiesta, senza per altro dimenticare di sottolineare alcune incongruità processuali e in particolare il clima di aperto dissidio con le parti civili, i loro avvocati e i periti nominati dal tribunale. “Un clima di accesa contrapposizione”. Aggiunge poi il giudice: “L’esame del pubblico ministero è stato nel complesso condotto con toni e modalità tali da indurre i periti in stato di soggezione, con ripetuti interventi del tribunale a ricondurlo nell’alveo delle regole proprie della normale dialettica processuale, a fronte  della lamentazione avanzata dagli stessi periti di venire sostanzialmente derisi”. Si raggiungono livelli tragicomici durante le udienze con parti civili ad esempio espulse dall’aula per motivi di ordine pubblico, o con un perito che denuncia “il pubblico ministero mi ha soffiato in faccia”.   Il Fatto Quotidiano > Giustizia & impunità > La morte di Uva... La morte di Uva senza colpevoli. Medico assolto, si indagherà sui carabinieri L'artigiano varesino perse la vita nel 2008, dopo un arresto in caserma. Cadono le accuse allo psicologo accusato di avergli somministrato un farmaco sbagliato. Ma il giudice ordina la trasmissione degli atti al pm "con riferimento agli accadimenti occorsi tra il fermo e l’ingresso in pronto soccorso dell’ospedale" di Silvia D’Onghia | 24 aprile 2012 Quando telefoni a casa Uva per sapere come è stata accolta la sentenza, senti urla di gioia di donne emozionate. Una reazione che non ti spieghi, se non conosci bene il caso della morte di Giuseppe. Perché ieri il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Varese, Orazio Muscato, ha assolto l’unico imputato di quel procedimento, lo psichiatra Carlo Fraticelli, “perché il fatto non sussiste”. A quattro anni dalla morte di Uva, dunque, la giustizia italiana non è stata ancora in grado di indicare il nome di un colpevole, di spiegare alla sorella Lucia chi ha ucciso suo fratello e perché. Eppure è proprio Lucia a urlare al telefono: “Ce l’abbiamo fatta!”. Vale allora la pena di ripercorrere questo strano processo per capire cosa è accaduto. L’artigiano Giuseppe Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese la notte tra il 13 e il 14 giugno 2008 assieme all’amico Alberto Biggiogero perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, Uva venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio Biggiogero a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio. Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, dopo aver trascorso quasi tre ore nelle mani dello Stato. Alle 10,30 di quella stessa mattina l’artigiano morì, con il corpo martoriato. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia (secondo la famiglia la perizia eseguita qualche mese fa dopo la riesumazione del cadavere dimostrerebbe un abuso sessuale). “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”. Eppure tutto questo, insieme col terribile sospetto che quelle urla sentite da Biggiogero e quelle lesioni fossero davvero la reazione a un pestaggio, non è finito in Tribunale. Davanti ai giudici sono arrivati tre medici: Matteo Catenazzi, colui che intervenne in caserma, prosciolto il primo dicembre 2010, ma la cui posizione è tornata in udienza preliminare dopo il ricorso presentato in Cassazione dalla Procura; Enrica Finazzi, la dottoressa che parlò per un’ora con Uva (e alla quale Uva raccontò di essere stato picchiato dai carabinieri), per la quale l’udienza preliminare si celebrerà in ottobre; e lo psichiatra Carlo Fraticelli, assolto ieri dall’accusa di omicidio colposo per aver somministrato al paziente un farmaco sbagliato. Fin qui, dunque, nessun colpevole. Ma c’è qualcosa nel dispositivo della sentenza che ha fatto gridare a Lucia Uva “ce l’abbiamo fatta”. Il Gup Muscato ha infatti ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. Si torni a indagare, ha detto il giudice, accogliendo in pieno le richieste della parte civile, ma stavolta lo si faccia su quelle ore di buio che hanno preceduto il Trattamento sanitario obbligatorio disposto quella notte dal sindaco di Varese, Attilio Fontana. “Me l’aspettavo, certo – spiega Lucia –, abbiamo perso quattro anni a piangere e a spendere soldi per fare un processo a un medico che non c’entrava nulla. Ma non poteva andare diversamente. Bisogna capire cosa è accaduto in quella caserma”. Già, ma stavolta chi condurrà le indagini? In tutti questi anni ci sono stati pesanti attriti in aula proprio tra il pm Agostino Abate (che aveva chiesto la condanna di Fraticelli a un anno di reclusione) e Fabio Anselmo, legale della famiglia Uva. Anche ieri, quando il Gup si è ritirato in camera di consiglio, molti hanno ascoltato le parole che l’accusa ha lanciato contro la parte civile. In due occasioni, tra l’altro, Abate aveva fatto allontanare dall’aula Lucia Uva, Patrizia Aldrovandi e Ilaria Cucchi. Anche Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto”, insinua un dubbio di opportunità: “La sentenza del Tribunale è un’ulteriore conferma dell’assoluta incompatibilità tra l’urgenza di arrivare alla verità sulla morte di Uva e l’attuale figura di pubblico ministero che ha condotto finora le indagini”. Le tre donne, ormai, hanno fatto rete, accomunate dalla cattiva sorte di aver perso un figlio o un fratello per mano dello Stato. Patrizia era la mamma di Federico, ucciso dalla polizia a Ferrara. Ilaria era la sorella di Stefano, morto a Roma dopo un arresto per droga. A loro si è unita negli ultimi tempi anche Domenica Ferrulli, figlia di Michele, morto a Milano durante un fermo di polizia. Ieri erano tutte insieme, prima davanti al Tribunale di Varese a chiedere giustizia, poi a casa di Lucia a festeggiare per una morte che non ha ancora un colpevole. Ma che, se ieri fosse andata diversamente, ne avrebbe avuto uno sbagliato. Il giudice ha ordinato una nuova indagine sul periodo intercorso dal momento dell’arresto all’arrivo in ospedale. L’autopsia eseguita nel dicembre 2011 aveva rivelato che la vittima poteva essere stata stuprata e sottoposta a maltrattamenti. 32 32

33 LA SITUAZIONE IN ITALIA
(fonte A.I: Rapporto Annuale 2013) UCCISIONI ILLEGALI: La corte di Cassazione, a giugno 2012, ha confermato la condanna a 3 anni e 6 mesi per omicidio colposo emessa in primo e secondo grado nei confronti di quattro agenti di polizia per l'omicidio di Federico Aldrovandi, studente 18enne, morto il 25/9/ 2005 a Ferrara durante un fermo. Secondo la Sentenza Cassazione su omicidio FEDERICO ALDROVANDI. Amnesty International Italia: si chiude un lungo e tormentato percorso di ricerca della verità e della giustizia CS74: 21/06/2012 "Un lungo e tormentato percorso di ricerca della verità e della giustizia", nelle parole di Amnesty International Italia, è culminato oggi nella sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, che ha confermato la condanna per omicidio colposo emessa in primo e secondo grado nei confronti di quattro agenti di polizia per l'omicidio di Federico Aldrovandi, morto nel 2005 a Ferrara durante un fermo.   L'organizzazione per i diritti umani ha rinnovato solidarietà e vicinanza ai familiari di Federico Aldrovandi, che in questi anni hanno dovuto fronteggiare assenza di collaborazione da parte delle  istituzioni italiane e depistaggi dell'inchiesta.   Secondo l'organizzazione per i diritti umani, "il procedimento giudiziario per l'omicidio di Federico Aldrovandi e la definitiva sentenza di condanna, chiamano in causa in modo grave ed evidente la responsabilità delle forze di polizia italiane circa l'uso della forza".   Amnesty International Italia auspica che la sentenza odierna sproni le autorità italiane a dare attuazione alle raccomandazioni degli organismi internazionali per prevenire ulteriori tragiche violazioni dei diritti umani come l'omicidio di Federico Aldrovandi.    In un contesto caratterizzato dalla perdurante mancanza di un organismo indipendente di monitoraggio sui diritti umani e sull'operato delle forze di polizia, richiesto dagli standard internazionali e sollecitato da tempo da Amnesty International, questa sentenza deve interrogare le autorità italiane in merito alla formazione e al comportamento degli agenti di polizia e alla loro responsabilità circa la protezione delle persone.   Amnesty International Italia coglie l'occasione di questa sentenza per ricordare la stringente necessità di adeguare l'ordinamento interno alle norme e agli standard del diritto internazionale, in primo luogo attraverso l'introduzione del reato di tortura nel codice penale e l'adozione di meccanismi di prevenzione dei maltrattamenti. FINE DEL COMUNICATO                                                                               Roma, 21 giugno 2012  I fatti La salma di Federico Aldrovandi La notte del 25 settembre 2005 Aldrovandi decise di tornare a casa a piedi dopo aver trascorso la serata al locale Link di Bologna[2]. Durante la nottata il giovane assunse sostanze stupefacenti e alcol, seppur in minime quantità[1]. Nei pressi di viale Ippodromo aFerrara circolava, in quegli stessi minuti, la pattuglia "Alfa 3" con a bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri. Quest'ultimi descrivono l'Aldrovandi come un "invasato violento in evidente stato di agitazione", sostengono di "essere stati aggrediti dallo stesso a colpi di karate e senza un motivo apparente" e chiedono per questo i rinforzi. Dopo poco tempo arriva in aiuto la volante "Alfa 2", con a bordo Paolo Forlani e Monica Segatto. Lo scontro tra i quattro poliziotti e il giovane diventa molto violento (durante la colluttazione due manganelli si spezzano) e porta quest'ultimo alla morte, sopraggiunta per "asfissia da posizione", con il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti[2]. Alle 6.04 la prima pattuglia richiedeva alla propria centrale operativa l'invio di un'ambulanzadel 118, per un sopraggiunto malore. Secondo i tabulati dell'intervento, alle 6.10 arrivò la chiamata da parte del 113 a Ferrara Soccorso, che inviò sul posto un'ambulanza ed un'automedica, giunte sul posto rispettivamente alle 6.15 ed alle 6.18. All'arrivo sul posto il personale del 118 trovava il paziente “riverso a terra, prono con le mani ammanettate dietro la schiena [...] era incosciente e non rispondeva”. L'intervento si concluse, dopo numerosi tentativi di rianimazione cardiopolmonare, con la constatazione sul posto della morte del giovane, per “arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale”.[3] I dubbi della famiglia La famiglia venne avvertita solamente alle 11 del mattino, quasi cinque ore dopo la constatazione del decesso. I genitori, di fronte alle 54 lesioni ed ecchimosi presenti sul corpo del ragazzo, ritennero poco credibile la morte per un malore. Il 2 gennaio 2006 la madre di Federico apre un blog su internet, chiedendo che venga fatta luce su alcuni contorni oscuri di tutta la vicenda. Questo causò un'accelerazione delle indagini, che erano già in corso[4]. Il 20 febbraio 2006 vennero depositati i risultati della perizia medico legale disposta dal Pubblico Ministero, secondo la quale "la causa e le modalità della morte dell'Aldrovandi risiedono in una insufficienza miocardica contrattile acuta [...] conseguente all'assunzione dieroina, ketamina ed alcool”.[5] Di tutt'altra voce un'indagine medico–legale, depositata il 28 febbraio 2006 dai periti della famiglia, secondo la quale dall'esame autoptico la causa ultima di morte sarebbe stata "un'anossia posturale", dovuta al caricamento sulla schiena di uno o più poliziotti durante l'immobilizzazione. Per quanto riguarda l'assunzione di droghe, la quantità di sostanze tossiche assunte dal giovane era la medesima rilevata dai periti della Procura, ma assolutamente non sufficiente a causare l'arresto respiratorio: in particolare l'alcol etilico (0,4 g/L) era inferiore ai limiti fissati dal codice della strada per guidare, la ketamina era 175 volte inferiore alla dose letale e l'eroina assunta non poteva essere significativa, stante lo stato di agitazione imputato ad Aldrovandi. Essendo la sintomatologia dell'abuso di oppiacei caratterizzata da uno stato di sedazione e torpore, la morte di Aldrovandi, correlata al suo stato di euforia ed agitazione, è logicamente incompatibile con una forte overdose di eroina.[6] Inoltre sia la perizia che i risultati delle indagini avrebbero evidenziato un contesto di gravi violenze subite dal giovane durante tutto l'intervento delle due pattuglie di Polizia. Nel frattempo la notorietà della storia aumentava sempre di più, grazie alla mobilitazione di associazioni, comitati, scuole e delconsiglio comunale di Ferrara, arrivando fino alla partecipazione a trasmissioni televisive nazionali.[7] Corte, l’azione degli agenti fu “sproporzionalmente violenta e repressiva. Secondo AI, "il procedimento giudiziario per l'omicidio di Federico Aldrovandi e la definitiva sentenza di condanna, chiamano in causa in modo grave ed evidente la responsabilità delle forze di polizia italiane circa l'uso della forza". 33 33

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35 LA SITUAZIONE IN ITALIA
(fonte A.I: Rapporto Annuale 2013) UCCISIONI ILLEGALI: Stefano Cucchi, morto il 22 Ottobre 2009, a 31 anni, sette giorni dopo l’arresto nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Tre guardie carcerarie, sei medici e tre infermieri sono stati incriminati per vari reati, tra cui abuso d’autorità e abuso d’ufficio, lesioni personali e omissione di soccorso. Il 5/6/2013, la sentenza di primo grado, stabilisce che Stefano è morto per un errore sanitario, quindi 6 medici condannati a due anni di reclusione per omicidio colposo e, in un caso, falso ideologico; 6 assolti tra infermieri e guardie penitenziarie, ma pene sospese per tutti  Il Fatto Quotidiano  Stefano Cucchi, le sentenze si discutono di Enrico Fierro | 6 giugno 2013 La vita di STEFANO CUCCHI valeva meno di zero quando lo arrestarono perché era solo “un tossico di merda” e andava trattato come un animale. Vale meno di zero anche la sua morte per lo Stato italiano, rappresentato dai giudici della terza Corte d’Assise di Roma. Stefano non è morto per le mazzate, indegne di un Paese civile (le prove sono state giudicate insufficienti) dove il diritto alla vita è sacrosanto anche dentro una cella. Non è stato stritolato da un sistema della sicurezza che ormai ha accumulato troppe anomalie, troppi ‘casi’ per non essere messo in discussione. È morto per un tragico errore sanitario. Il suo corpo ha ceduto per “inanizione” (mancanza di cibo). Condannati i medici, quindi, assolti gli altri protagonisti delle ultime, infernali notti di Stefano: infermieri e poliziotti penitenziari. Non è vero che le sentenze non si discutono: quando sono ingiuste perché contraddicono i fatti e quando la loro ingiustizia getta un’ombra pesante sulla democrazia, si ha il dovere civile di criticarle. Perché in Italia i percorsi della verità sono spesso tortuosi quando si tratta di scavare dentro le colpe degli apparati dello Stato. Ne sanno qualcosa i familiari di Giuseppe Uva, ridotto come uno straccio dopo una notte passata in una caserma dei carabinieri, e quelli di Federico Aldrovandi, 18 anni, morto con il torace schiacciato dai poliziotti che lo avevano fermato a Ferrara. Amnesty International scrisse parole durissime: “I familiari di Aldrovandi in questi anni hanno dovuto fronteggiare assenza di collaborazione da parte delle istituzioni italiane e depistaggi dell’inchiesta”. Il Fatto Quotidiano, 6 Giugno 2013 Processo Cucchi: agenti assolti, pene sospese per i medici. Rivolta in aula Sei le condanne su 12 imputati per la morte del giovane arrestato e morto in custodia nel Due anni ai camici bianchi per omicidio colposo e, in un caso, otto mesi per falso ideologico. Grida alla lettura della sentenza: "Vergogna, assassini". La sorella in lacrime: "Giustizia ingiusta". Giovanardi: "Giustizia dopo linciaggio mediatico". Il legale degli agenti: "La stampa segua il processo, non Ilaria Cucchi". Il pm Barba: "Insoddisfatti". Antigone: "Tortura". Da Giorgia Meloni "solidarietà" alla famiglia: "Non è stata fatta piena luce" di Redazione Il Fatto Quotidiano | 5 giugno 2013 Sei medici condannati a due anni di reclusione per omicidio colposo e, in un caso, falso ideologico; sei assolti tra infermieri e guardie penitenziarie, ma pene sospese per tutti.  E’ la sentenza di primo grado del processo per la morte di Stefano Cucchi, il giovane arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo al Reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. La lettura del dispositivo, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia dov’era riunita la III Corte d’Assise del tribunale della capitale, è stata accompagnato dalle grida del pubblico, che hanno urlato “vergogna” e “assassini” all’indirizzo degli imputati (ascolta il commento di Silvia D’Onghia dall’aula bunker di Rebibbia). Le pene sono state notevolmente ridotte rispetto alla richiesta dell’accusa di condanna per tutti e 12 gli imputati. Il pm aveva contestato ai sei medici e ai tre infermieri tra l’altro il grave reato diabbandono di incapace. Tant’è che aveva chiesto per i medici pene tra i 6 anni e 8 mesi e i cinque anni e mezzo mentre per gli infermieri 4 anni ciascuno. Per gli agenti penitenziari aveva chiesto due anni di reclusione. La sentenza sulla morte di Stefano Cucchi è arrivata dopo sette ore e mezza di camera di consiglio. IL LEGALE DELLA FAMIGLIA: “FALLIMENTO DELLO STATO”. “Tre anni fa avevo previsto questo momento”, ha detto Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. “Questo è un fallimento dello Stato, perché considerare che Stefano Cucchi è morto per colpa medica è un insulto alla sua memoria e a questa famiglia che ha sopportato tanto. E’ un insulto alla stessa giustizia”. Il legale ha sottolineato di aver “sempre detto fin dall’inizio che questo processo ci avrebbe portato al massacro. Abbiamo tentato di salvare il salvabile, ma la mia angoscia nata tre anni fa è terminata oggi. I medici sono stati condannati con pene lievissime. Stefano Cucchi è morto per colpa sua”.  Opposta la reazione di uno degli agenti penitenziari assolti, Nicola Minichini. “E’ la fine di un incubo. La giustizia ha trionfato”. Il processo, ha aggiunto il suo avvocato Diego Perugini, “non aveva detto niente di diverso da quanto è accaduto oggi. L’unico vero problema era quello di valutare se la Corte avrebbe resistito alle straordinarie pressioni. La soddisfazione primaria che ho avuto è quella del Minichini che per queste accuse ha passato quattro anni di inferno”. ANTIGONE: “TORTURA TRATTATA COME CASO DI MALASANITA’”. Mentre i sindacati di polizia accolgono con soddisfazione la sentenza, il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella parla di ”un inequivocabile caso di violenza, tortura e morte è stato trattato come una vicenda di mala sanità. Siamo convinti che il Parlamento dovrebbe intanto dare un segnale importante con la corsia preferenziale al provvedimento di legge che prevede l’introduzione del reato di tortura nel codice penale”. Il Sappe, sindacato della Polizia penitenziaria, saluta invece l’assoluzione degli agenti. La sentenza, secondo il segretario Donato Capece, “conferma che la Polizia Penitenziaria ha lavorato come sempre nel pieno rispetto delle leggi, con professionalità e senso del dovere. Ciò detto, rinnoviamo le sincere espressioni di rispetto per la triste e dolorosa vicenda che ha visto coinvolta la famiglia di Stefano Cucchi”. Il Sappe ricorda che “la rigorosa inchiesta disposta dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria escluse responsabilità da parte del Personale di Polizia penitenziaria. Rigettiamo ogni tesi manichea che ha associato e associa più o meno velatamente al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo”, 35 35

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37 LA SITUAZIONE IN ITALIA
(fonte A.I: Rapporto Annuale 2013) UCCISIONI ILLEGALI: L’11 novembre 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 26 anni, viene ucciso da un colpo d'arma da fuoco esploso da un agente della polizia stradale, mentre si trovava in uscita da un autogrill in auto con alcuni amici, l’agente è stato condannato in Cassazione per omicidio volontario SkyTG24 14/2/2012 La Cassazione ha confermato la condanna a nove anni e quattro mesi per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, ritenuto colpevole dell'omicidio volontario di GABRIELE SANDRI, il tifoso laziale ucciso da un colpo di pistola l’11 novembre del 2007 nell’area di servizio Badia al Pino (Arezzo). "E' una sentenza giusta e in punta di diritto - ha commentato Cristiano, fratello di Gabriele  - E' evidente che nell'azione che ha posto in essere Spaccarotella c'è il dolo eventuale, perché ha accettato il rischio di quello che poteva accadere, cioè la morte di chi era a bordo dell'auto e purtroppo di mio fratello Gabriele".  "Ho sempre avuto fiducia nella giustizia" ha invece dichiarato Piergiorgio, il padre del giovane. E ha aggiunto: "Voglio dire grazie a tutta la gente che c'è stata vicino fino a questo momento. Ho avuto un solo momento di scoraggiamento quando è stata emessa la sentenza di primo grado che era raccapricciante . Ma ora le cose sono andate come dovevano andare".  La Corte, martedì 14 febbraio, ha infatti rigettato il ricorso, così come richiesto dal sostituto procuratore generale Francesco Iacoviello, presentato dai legali di Spaccarotella contro la sentenza emessa dalla Corte d'assise d'Appello di Firenze che ha riconosciuto l'omicidio volontario con dolo eventuale. "Affronterò la situazione da uomo" ha detto Luigi Spaccarotella a uno dei suoi  legali che lo informava del verdetto. "Appena il fax verrà trasmesso a Firenze, probabilmente in giornata, l'agente - commenta il legale Federico Bagattini - verrà trasferito in carcere. O probabilmente sarà lui stesso a costituirsi".  "Ho sempre avuto fiducia nella giustizia e voglio dire grazie a tutta la gente che c'è stata vicino fino a questo momento. Ho avuto un solo momento di scoraggiamento quando è stata emessa la sentenza di primo grado che era raccapricciante. Ma ora le cose sono andate come dovevano andare" ha commentato Piergiorgio Sandri, padre di Gabriele.  Il fratello di Gabriele: "Spaccarotella non può non essersi reso conto del rischio" - "Noi ci attendiamo la conferma della sentenza di Appello . Anche perché se dovesse essere riconosciuto il fatto colposo (ossia quello in cui manca la volontà di compiere un reato, ndr ) le strade italiane potrebbero diventare dei far west" aveva detto Cristiano Sandri, fratello di Gabriele a SkyTG24 poche ore prima della decisione della Cassazione. "Quello che purtroppo è accaduto a Gabriele è un esempio di scuola di dolo eventuale : come ha riconosciuto il procuratore generale presso la Corte d’Assise di Appello di Firenze è inimmaginabile che un operatore esperto non si possa essere reso conto e quindi non abbia avuto la certezza del rischio di quello che commetteva sparando contro una macchina su cui viaggiavano 5 ragazzi".  La Cassazione ha confermato la condanna a nove anni e quattro mesi per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, ritenuto colpevole dell'omicidio volontario di Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso da un colpo di pistola l’11 novembre del 2007 nell’area di servizio Badia al Pino (Arezzo). "E' una sentenza giusta e in punta di diritto - ha commentato Cristiano, fratello di Gabriele  - E' evidente che nell'azione che ha posto in essere Spaccarotella c'è il dolo eventuale, perché ha accettato il rischio di quello che poteva accadere, cioè la morte di chi era a bordo dell'auto e purtroppo di mio fratello Gabriele".  "Ho sempre avuto fiducia nella giustizia" ha invece dichiarato Piergiorgio, il padre del giovane. E ha aggiunto: "Voglio dire grazie a tutta la gente che c'è stata vicino fino a questo momento. Ho avuto un solo momento di scoraggiamento quando è stata emessa la sentenza di primo grado che era raccapricciante . Ma ora le cose sono andate come dovevano andare".  La Corte, martedì 14 febbraio, ha infatti rigettato il ricorso, così come richiesto dal sostituto procuratore generale Francesco Iacoviello, presentato dai legali di Spaccarotella contro la sentenza emessa dalla Corte d'assise d'Appello di Firenze che ha riconosciuto l'omicidio volontario con dolo eventuale. "Affronterò la situazione da uomo" ha detto Luigi Spaccarotella a uno dei suoi  legali che lo informava del verdetto. "Appena il fax verrà trasmesso a Firenze, probabilmente in giornata, l'agente - commenta il legale Federico Bagattini - verrà trasferito in carcere. O probabilmente sarà lui stesso a costituirsi".  "Ho sempre avuto fiducia nella giustizia e voglio dire grazie a tutta la gente che c'è stata vicino fino a questo momento. Ho avuto un solo momento di scoraggiamento quando è stata emessa la sentenza di primo grado che era raccapricciante. Ma ora le cose sono andate come dovevano andare" ha commentato Piergiorgio Sandri, padre di Gabriele.  Il fratello di Gabriele: "Spaccarotella non può non essersi reso conto del rischio" - "Noi ci attendiamo la conferma della sentenza di Appello . Anche perché se dovesse essere riconosciuto il fatto colposo (ossia quello in cui manca la volontà di compiere un reato, ndr ) le strade italiane potrebbero diventare dei far west" aveva detto Cristiano Sandri, fratello di Gabriele a SkyTG24 poche ore prima della decisione della Cassazione. "Quello che purtroppo è accaduto a Gabriele è un esempio di scuola di dolo eventuale : come ha riconosciuto il procuratore generale presso la Corte d’Assise di Appello di Firenze è inimmaginabile che un operatore esperto non si possa essere reso conto e quindi non abbia avuto la certezza del rischio di quello che commetteva sparando contro una macchina su cui viaggiavano 5 ragazzi".  37 37

38 LA SITUAZIONE IN ITALIA:
UCCISIONI ILLEGALI: Kaies Bohili, 36 anni, sarebbe morto il 5/6/2013 durante il trasferimento nella caserma di Riva Ligure, a causa di un malore. Ma spunta una foto - inviata via da ignoti - la cui didascalia parla chiaro: "Così l'ha massacrato", in riferimento ad uno dei due agenti dei Carabinieri. Secondo l'autopsia, KAIES BOHILI, il pusher tunisino arrestato a Sanremo ai 5/6/2013, sarebbe morto per asfissia. Più precisamente per "Arresto cardiocircolatorio neurogenico secondario ad asfissia violenta da inibizione dell'espansione della gabbia toracica". Del caso se ne era parlato a lungo, ma il risultato al quale si è giunti potrebbe significare molto per l'andamento delle indagini. Chi invece rimane sulle sue posizioni è l'Arma, che non ha commentato. Ricordiamo innanzitutto le dinamiche dell'arrivo in caserma di Kaies Bohili. Il pusher entra in Asl con solo qualche segno di colluttazione. Ciò che l'ha ucciso, insomma è intervenuto durante il tragitto e si tratta, secondo le informazioni arrivate lo scorso 6 agosto, di "asfissia violenta". Nelle parole del procuratore Roberto Cavallone: "Nella morte di Bohli Kayes [sic] c’è la responsabilità dello Stato. Perché al di là di quello che poteva aver commesso, in quel momento o in passato, la vita è sacra, e quando un cittadino italiano o straniero, chiunque esso sia, è nella disponibilità delle Istituzioni, la sua integrità fisica deve essere assolutamente tutelata". Buone notizie insomma, se si considera che lo stesso procuratore a Giugno smentiva che si trattasse di un nuovo caso Cucchi. Le ragioni della morte di Bohili sarebbero infatti le condizioni che l'hanno impossibilitato a respirare. Svaniscono così le ipotesi che fosse stata l'assunzione di droghe ad aver causato il malore, fatto che l'autopsia ha smentito (nonostante la lieve assunzione di cannabis). Il caso non lascia di conseguenza alcun alibi alle forze dell'ordine presenti, certificandone la responsabilità a fronte del fatto che a causare il malore sia stato il trattamento subito dal tunisino: l'asfissia deriverebbe infatti da compressione della cassa toracica. Forse un tentativo di mantenere Bohili fermo, che però comunque ricade sotto l'autorità dei carabinieri e non sarebbe derubricabile ad un deprecabile incidente. I carabinieri sono di conseguenza sotto accusa di omicidio colposo, anche se l'Arma tarda a fare le proprie scuse (come invece accade a Londra, dove è spuntato un caso analogo). Intanto continua a chiarirsi la dinamica dell'arresto. Il Messaggero parla infatti di un malore che si sarebbe verificato già nel parcheggio, anche se rimane dubbio il fatto che sentitosi male già sul posto Bohili venga portato fino in caserma. Sembra incoerente, a meno che le cause dell'asfissia non si siano registrate nel trasporto, e non prima. Intanto arrivano i primi commenti alla sentenza, il più "autorevole" dei quali è quello di Lino Aldrovandi, padre di Federico: "Fatti del genere [...] discreditano indifferentemente tutte le istituzioni e i principi del vivere democratico e vanno quindi perseguiti e condannati con fermezza assoluta, nell'interesse anche delle stesse Forze dell'Ordine, che devono avere la forza di isolare i responsabili". Sulla stessa strada sembra avviato Cavallone, anche se inizialmente si era mostrato titubante: "È una grave responsabilità di cui lo Stato dovrà farsi carico". È sicuramente una piccola buona notizia, anche probabilmente non sarà mai possibile sapere come effettivamente Bohili sia stato trattato dalle forze dell'ordine. Il punto starà nel vedere come queste ultime reagiranno: tocca ora ai Carabinieri iniziare a selezionare il proprio personale e controllarlo, fatto smentito dai casi di cronaca che si sono susseguiti negli anni. L'autorità giudiziaria (nella persona di Cavallone) si è mossa. Quella di polizia? 38 38

39 COSA FA AMNESTY INTERNATIONAL
La Sez. Italiana di Amnesty International, nel 2011, ha lanciato l’appello “Operazione TRASPARENZA”, che instaura un legame fra i casi di violazione dei diritti umani ad opera delle forze di polizia in Italia, chiede l’introduzione del reato di tortura nel codice penale del nostro Paese, e di un sistema che permetta di “prevenire gli abusi dei diritti umani e di assicurare indagini rapide, approfondite e procedimenti equi per l’accertamento delle responsabilità, quando emergano denunce di violazioni” Un quarto di secolo fa, nel 1989, con la ratifica della Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, l’Italia ha assunto l’obbligo di introdurre il reato di tortura nel suo codice penale. Ad oggi, tale reato non è ancora contemplato dal nostro ordinamento, anche se il 13 agosto, per la prima volta, LA COMMISSIONE GIUSTIZIA DELLA Camera ha approvato un testo che introduce il reato nel nostro ordinamento e che sarà discusso in Senato. Secondo Amnesty International Italia, questa inadempienza non implica solo l’inesistenza di un nome appropriato, di rilevanza penale, per un comportamento così aberrante quale la pratica della tortura, ma anche effetti giudiziari distorti quali la comminazione di pene inadeguate attraverso l’attribuzione di reati minori. Per questo, A.I. segnala proprio la mancanza di un reato di tortura tra i principali motivi della sostanziale impunità di cui hanno goduto i rei, nonché della giustizia negata alle centinaia di vittime di violazione dei diritti umani commesse dalle forze di polizia durante il G8 di Genova, con particolare riferimento al centro di detenzione di Bolzaneto. Amnesty International Italia ha lanciato, nel 2011, l’appello “Operazione Trasparenza – Diritti Umani e Polizia in Italia”, che instaura un legame fra tutti i casi che chiamano in causa l’uso eccessivo della violenza da parte delle forze di polizia, inserendo la ferma richiesta dell’introduzione del reato di tortura in un sistema che permetta di “prevenire violazioni dei diritti umani e di assicurare indagini rapide e approfondite e procedimenti equi per l’accertamento delle responsabilità, quando emergano denunce di violazioni” 39 39

40 TRASPARENZA E RESPONSABILITA’
In Italia mancano tuttora importanti strumenti per la prevenzione e la punizione degli abusi, come - organismi di monitoraggio sul rispetto dei diritti umani nei luoghi di detenzione (OPCAT), - misure di identificazione degli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico - previsione del reato di tortura nel codice penale. - garanzia che gli agenti siano adeguatamente equipaggiati e formati ad utilizzare metodi non violenti e non letali prima di ricorrere, quando strettamente necessario, all’uso legittimo e proporzionato della forza e delle armi Amnesty International chiede all’Italia di assicurare che le forze di polizia operino nel rispetto degli standard internazionali sull’uso della forza e delle armi, di prevenire violazioni dei diritti umani e di assicurare indagini rapide, approfondite ed eque per l’accertamento delle responsabilità, quando emergano denunce di violazioni. In Italia mancano tuttora importanti strumenti per la prevenzione e la punizione degli abusi, come - gli organismi di monitoraggio sul rispetto dei diritti umani e sui luoghi di detenzione, - le misure di identificazione degli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico - la previsione del reato di tortura nel codice penale. La previsione del reato di tortura è obbligatorio per l’Italia da quando, 25 anni fa, ha sottoscritto la CAT. Infatti La Convenzione contro la tortura e altre pene e trattamenti crudeli, inumani e degradanti approvata dalla Nazioni Unite nel 1984 impone, all’art. 4, l’obbligo per gli Stati parte di provvedere affinché qualsiasi atto di tortura sia previsto dal proprio diritto penale nazionale come un reato sanzionato con pene adeguate e proporzionate alla gravità del comportamento. 40 40

41 COSA FA AMNESTY INTERNATIONAL
L’Italia è oggi un paese in cui ampie fasce di popolazione corrono un alto rischio di violazioni dei diritti umani. Nonostante i richiami dei comitati internazionali di monitoraggio e le richieste della società civile, le falle del sistema, assieme a scelte politiche fuori luogo, hanno prodotto in questi anni abusi, ingiustizia, sofferenza e disgregazione sociale. Essere donne, partecipare a una manifestazione, essere migranti, rom, gay, detenuti, significa in Italia correre un serio rischio per i propri diritti umani. In tempi di crisi economica, con l’aumento delle tensioni sociali da una parte e, dall’altra, l’accento della politica sulle sole questioni finanziarie, questa situazione tende ad aggravarsi. Un governo che ha a cuore il paese, ha a cuore i diritti umani di chi ci vive e se ne sente responsabile. Un parlamento che intende esercitare pienamente la sua funzione, legifera per la protezione e il benessere di tutti, nel segno dei diritti e del rispetto della dignità di ciascuno. In occasione delle elezioni politiche del 2013, Amnesty International ha sottoposto ai leader delle coalizioni e delle forze politiche, e a tutti i candidati e le candidate, una lista di richieste articolate in 10 punti prioritari. L’organizzazione ha chiesto a chi si propone per la guida del paese di esprimersi chiaramente su ogni punto, prendendo una posizione netta a riguardo, davanti all’elettorato. L’Agenda in 10 punti per i diritti umani in Italia di Amnesty International costituisce un vero e proprio programma di riforme, a cui l’organizzazione dedica una campagna nazionale che porterà avanti nei prossimi anni con il nuovo governo e parlamento. Il primo punto dell’agenda riguardava proprio l’operato delle forze di polizia: 1. GARANTIRE LA TRASPARENZA DELLE FORZE DI POLIZIA E INTRODURRE IL REATO DI TORTURA Le forze di polizia sono attori chiave nella protezione dei diritti umani in ogni paese: hanno, tra le loro responsabilità, quelle di ricevere denunce e svolgere indagini su abusi dei diritti umani, garantire il corretto svolgimento delle manifestazioni, proteggendo chi vi partecipa da minacce e violenze. Affinché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e svolto nella piena fiducia di tutti, sono essenziali il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle responsabilità e una complessiva trasparenza. Amnesty International chiede agli stati di assicurare che le forze di polizia operino nel rispetto degli standard internazionali sull’uso della forza e delle armi, di prevenire violazioni dei diritti umani e di assicurare indagini e procedimenti imparziali, accurati, equi e tempestivi per l’accertamento delle responsabilità, quando emergano notizie di violazioni. A quasi 12 anni dal G8 di Genova del 2001, durante il quale centinaia di persone furono vittime di gravi violazioni dei diritti umani da parte di centinaia di agenti e funzionari delle forze di polizia, molti dei responsabili sono sfuggiti alla giustizia e in Italia ancora mancano importanti strumenti per la prevenzione e la punizione delle violazioni, necessari affinché tutte le forze di polizia siano riconosciute come attori di protezione, trasparenti e responsabili del proprio operato. Nel frattempo, molti altri casi che chiamano in causa la responsabilità delle forze di polizia sono emersi e, purtroppo, continuano a emergere. Per fermare le violazioni dei diritti umani e a beneficio del ruolo centrale della polizia nella loro protezione, è urgente che le lacune esistenti vengano al più presto colmate. In particolare, E’ ESSENZIALE CHE IL REATO DI TORTURA VENGA FINALMENTE INTRODOTTO NEL CODICE PENALE E’ IMPORTANTE CHE VENGA ISTITUITO UN MECCANISMO NAZIONALE DI PREVENZIONE DELLA TORTURA E DEI MALTRATTAMENTI, OBBLIGO PREVISTO DAL PROTOCOLLO OPZIONALE ALLA CONVENZIONE ONU CONTRO LA TORTURA, RATIFICATO DALL’ITALIA NEL 2012. È URGENTE CHE VENGANO INTRODOTTE MISURE DI IDENTIFICAZIONE PER GLI AGENTI IMPEGNATI IN OPERAZIONI DI ORDINE PUBBLICO ASSICURANDO CHE L'IDENTITÀ PERSONALE DEGLI STESSI SIA TRACCIABILE, ad esempio attraverso l'uso di codici alfanumerici sulle uniformi, come indicato dal Codice europeo sull’etica della polizia, adottato dal Consiglio d’Europa nel 2014. (Diversi sono i manifestanti o i cittadini italiani morti in condizioni non chiare durante scontri, fermi o interrogatori. I casi più noti all'opinione pubblica sono quelli di Carlo Giuliani, ucciso nel luglio del 2001 da un proiettile sparato da un esponente delle Forze dell'Ordine, durante gli scontri a Genova per il G8; Federico Aldrovandi, morto dopo un pestaggio nel 2005; la vicenda delle perquisizioni alle scuole Diaz e Pascoli, sedi degli uffici del Genoa Social Forum e di alloggio per una parte dei partecipanti alle manifestazioni, durante la quale alcuni esponenti delle Forze di polizia si sono resi protagonisti di fatti  gravissimi che è più che mai necessario accertare e chiarire per quanto attiene alla responsabilità politica, oltre che personale. In alcune occasioni, come è noto, è stato possibile accertare delle responsabilità penali in sede processuale ma vi sono molti altri episodi nei quali è risultato particolarmente difficoltoso, quando non impossibile, risalire all’identificazione degli esponenti delle Forze dell'ordine protagonisti degli eventi, poiché nel corso delle attività in questione essi risultavano essere non personalmente e non singolarmente riconoscibili. A tale proposito vale la pena di ricordare che diverse contestazioni sono state mosse dagli attivisti No Tav a seguito degli sgomberi effettuati dalle Forze di Polizia. A titolo di esempio si possono citare gli eventi della notte del 6 dicembre 2005 a Venaus, gli eventi del febbraio 2010, gli accadimenti del In relazione al comportamento di alcuni agenti in queste ultime circostanze, anche a seguito di documentazione video, nel marzo 2012 sono stati aperti almeno una ventina di fascicoli da parte della Procura della Repubblica di Torino nei confronti di ignoti. In merito all'esito delle denunce contro ignoti è utile però ricordare il decreto di archiviazione della denuncia sporta da oltre venti manifestanti No Tav per i fatti del dicembre 2005 a Venaus, nel cui dispositivo si può leggere che, pur potendosi affermare che alcuni agenti hanno posto in essere comportamenti sproporzionati alla situazione in atto, il Pubblico Ministero ha comunque dovuto richiedere l'archiviazione in quanto non identificabili le persone che hanno inferto le lesioni ai danni di alcuni manifestanti. L'Italia è uno dei pochi paesi europei in cui le Forze di Polizia non sono dotate di codici identificativi sulla divisa e sul casco, codici utili per individuare i singoli agenti e responsabilizzarli nel corso del servizio di ordine pubblico. Sul merito, il dibattito avviato nelle scorse Legislature non ha portato ad alcun esito concreto, sebbene già in passato sia stato rilevato come diversi sistemi identificativi siano già da tempo in uso sulle divise i caschi delle Forze dell'Ordine inglesi, francesi tedesche, canadesi, svedesi, irlandesi, norvegesi, austriache e greche. La normativa vigente, a cominciare dalla legge n. 121 del che pure, all'articolo 30, aveva previsto un decreto ministeriale in materia (DM 19 febbraio 1992 poi abrogato dal Decreto legislativo n 66 del 2000) - come pure i Regolamenti di cui al DPR 737/81 e 782/85 nonché la legge n. 152 del 1975, sembra non essere riuscita a disciplinare efficacemente il problema.  In assenza di una precisa disposizione in tal senso capita che, protetti dall'anonimato delle uniformi e dei caschi, singoli appartenenti alle Forze dell'Ordine italiane possa compiere abusi o atti arbitrari senza essere direttamente riconoscibili, così svilendo la credibilità ed il prestigio degli altri tutori dell'Ordine pubblico e, indirettamente, dello Stato. Si ritiene pertanto necessario, fatta espressamente salva ogni altra disposizione vigente che individui fattispecie di più grave reato, introdurre espressamente per legge l'obbligatorietà dei contrassegni identificativi individuali sulla divisa e il casco del personale di Polizia in servizio di ordine pubblico, per far sì che sia più difficile che eventuali abusi commessi da singoli restino impuniti. E tale riconoscibilità servirebbe anche da forte deterrente.) VA GARANTITO CHE GLI AGENTI SIANO ADEGUATAMENTE EQUIPAGGIATI E FORMATI A IMPIEGARE METODI NON VIOLENTI E NON LETALI PRIMA DI RICORRERE, QUANDO STRETTAMENTE NECESSARIO, A UN USO LEGITTIMO E PROPORZIONATO DELLA FORZA E DELLE ARMI. Delle forze di polizia professionali e consapevoli del proprio ruolo chiave nella protezione dei diritti umani hanno un interesse proprio rispetto alla creazione di meccanismi di garanzia idonei a prevenire e sanzionare comportamenti che ne minano la credibilità. L'Agenda è stata sottoscritta da 440 candidati, di cui 117 sono stati poi eletti al parlamento.    Amnesty International Italia chiede il rispetto degli impegni presi da parte dei singoli parlamentari, nonché di tutti i leader che compongono il governo cosiddetto di larghe intese (Pd, Pdl, Scelta Civica, Partito radicale) in merito ai 10 punti della sua Agenda. L'organizzazione per i diritti umani sottolinea, in particolare, che tutti i leader delle forze politiche e dei partiti rappresentati nel governo si sono impegnati per l'introduzione di misure che garantiscano la trasparenza dell'operato delle forze di polizia e per l'introduzione del reato di tortura (punto 1 dell'Agenda) e si aspetta dunque che questo impegno sia mantenuto. Per questo, ricorrentemente chiede loro conto degli atti compiuti per rispettare gli impegni presi e contatta i parlamentari che non hanno sottoscritto l’agenda per riproporgliela 41 41

42 GARANTIRE LA TRASPARENZA DELLE FORZE DI POLIZIA E INTRODURRE ILREATO DI TORTURA
FERMARE IL FEMMINICIDIO E LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE PROTEGGERE I RIFUGIATI, FERMARE LO SFRUTTAMENTO E LA CRIMINALIZZAZIONE DEI MIGRANTI E SOSPENDERE GLI ACCORDI CON LA LIBIA SUL CONTROLLO DELL’IMMIGRAZIONE ASSICURARE CONDIZIONI DIGNITOSE E RISPETTOSE DEI DIRITTI UMANI NELLE CARCERI COMBATTERE L’OMOFOBIA E LA TRANSFOBIA E GARANTIRE TUTTI I DIRITTI UMANI ALLE PERSONE LGBTI FERMARE LA DISCRIMINAZIONE, GLI SGOMBERI FORZATI E LA SEGREGAZIONE ETNICA DEI ROM CREARE UN’ISTITUZIONE NAZIONALE INDIPENDENTE PER LA PROTEZIONE DEI DIRITTI UMANI IMPORRE ALLE MULTINAZIONALI ITALIANE IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI LOTTARE CONTRO LA PENA DI MORTE NEL MONDO E PROMUOVERE I DIRITTI UMANI NEI RAPPORTI CON GLI ALTRI STATI GARANTIRE IL CONTROLLO SUL COMMERCIO DELLE ARMI FAVORENDO L’ADOZIONE DI UN TRATTATO INTERNAZIONALE 42


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