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Università della Calabria

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Presentazione sul tema: "Università della Calabria"— Transcript della presentazione:

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Sociologia delle comunicazioni di massa Modelli di comunicazione Prof.ssa Giovannella Greco

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Premessa Negli studi sulla comunicazione si possono individuare almeno tre diversi modelli teorici: 1. Il modello tradizionale o della trasmissione 2. Il modello interattivo o pragmatico 3. Il modello dialogico

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Il modello della trasmissione Il primo modello, sulla base dello schema proposto a suo tempo da E. Shannon e W. Weaver (1), intende la comunicazione come un processo unidirezionale di trasmissione dell’informazione. Secondo questo modello, la comunicazione è un sistema entro il quale la fonte (emittente), utilizzando un canale (mezzo di comunicazione), invia un messaggio al destinatario (ricevente). (1) C. E. Shannon, W. Weaver, La teoria matematica delle comunicazioni (1949), Etas Libri, Milano 1971.

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Il messaggio, trasmesso sotto forma di segnale, entra nel canale attraverso un apparecchio trasmittente e ne esce, sempre sotto forma di segnale, attraverso un apparecchio ricevente. Per essere trasmesso, il messaggio deve essere codificato in un linguaggio che il canale sia in grado di veicolare, e tale codice deve essere condiviso da entrambi i poli della comunicazione (emittente e ricevente), altrimenti il messaggio non può essere decodificato. Nel corso della trasmissione si possono verificare interferenze di vario genere, definite rumore, che possono contribuire a distorcere o modificare il messaggio stesso.

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Per la linearità derivante dalla sua impronta matematica, tale modello appare del tutto inadeguato a descrivere ciò che avviene davvero nel corso di una qualsiasi comunicazione interpersonale nell’ambito della vita quotidiana. Se l’oggetto privilegiato della sociologia è costituito dagli aspetti sociali dell’esistenza umana, ciò che non trova spazio in questo modello è proprio la dimensione sociale del processo comunicativo e la sua dinamica complessa.

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Il modello pragmatico Il secondo modello, cui si richiama l’approccio pragmatico alla comunicazione umana (1), interviene a superare i limiti del primo introducendo concetti chiave come quello di reatroazione (feedback), cioè la risposta del ricevente che consente all’emittente di capire se il messaggio è stato recepito e di apporvi, se necessario, delle modifiche. (1) P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della Comunicazione Umana (1967), Astrolabio, Roma 1971.

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Secondo questo modello, l’interazione umana può essere considerata come un sistema aperto, in quanto i confini che lo definiscono in relazione all’ambiente non sono delle recinzioni invalicabili, bensì il luogo effettivo dello scambio comunicativo tra ciò che può essere definito sistema, ad un dato livello, e ciò che può essere definito ambiente, ad un altro livello. La caratteristica di tali confini è, infatti, quella della penetrabilità in entrata e in uscita. Secondo l’approccio pragmatico, la comunicazione interpersonale si fonda su alcuni assiomi, ovvero su alcuni principi indiscussi e indiscutibili dalla teoria, che costituiscono i presupposti della comunicazione umana.

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1° Non si può non comunicare. 2° Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, di modo che il secondo classifica il primo ed è metacomunicazione. 3° La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione. 4° Gli esseri umani comunicano sia con un modulo numerico (digitale) sia con un modulo analogico. 5° Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza.

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Il primo assioma sancisce l’impossibilità di non comunicare. Tale impossibilità deriva dal fatto che è impossibile non avere un comportamento. Ognuno di noi comunica per il semplice fatto di esistere e, anche volendo, non può farne a meno, come attesta il dilemma schizofrenico che pone il soggetto di fronte al compito impossibile di negare che egli sta comunicando e, al tempo stesso, che il suo diniego è comunicazione. Infatti, osservando il comportamento schizofrenico, anche se potrebbe sembrare che lo schizofrenico cerchi di non-comunicare, in realtà, poiché il silenzio, il ritrarsi e ogni altra forma di diniego è comunicazione, lo schizofrenico sta comunicando.

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Tralasciando gli aspetti psicopatologici della comunicazione umana, è sufficiente osservare le “normali” manifestazioni dell’interazione umana nella vita quotidiana per rendersi conto che chi pensa o tenta di non comunicare, in realtà, sta comunicando. Una situazione tipica è l’incontro tra due estranei, di cui uno vuole comunicare, mentre l’altro no. In questo caso, le reazioni di quest’ultimo (B) verso il comportamento del primo (A) possono essere almeno quattro.

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Rifiuto della comunicazione: con maniere più o meno brusche, B può far capire a A che non vuole comunicare. Accettazione della comunicazione: B si rassegna a comunicare con A. Squalificazione della comunicazione: B può comunicare in modo da invalidare le proprie comunicazioni o quelle di A (rientrano in questa tecnica fenomeni quali la contraddizione, il cambiare argomento, il dire frasi incoerenti o incomplete…). Sintomo come comunicazione: B può difendersi da A, manifestando un sintomo (per esempio: far finta di avere sonno, di star male…) che, mediante un messaggio non verbale, dice: “qualcosa che non posso controllare m’impedisce di comunicare con te”.

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Il secondo assioma sancisce che ogni atto comunicativo non solo trasmette informazioni, ma impone anche un comportamento. Ogni comunicazione ha, infatti, un aspetto di contenuto che trasmette i dati della comunicazione, e un aspetto di relazione che trasmette il modo in cui si deve assumere tale comunicazione. Quest’ultimo aspetto riguarda la capacità di metacomunicare in modo adeguato, la quale, strettamente collegata alla consapevolezza di sé e degli altri, costituisce la conditio sine qua non di una comunicazione efficace.

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A livello di relazione, qualsiasi cosa si comunichi e in qualunque modo lo si faccia, le persone non comunicano su fatti esterni alla relazione, ma sulla relazione in quanto tale e, implicitamente, su se stesse. In altre parole, mentre comunichiamo con qualcuno, qualunque sia il contenuto della comunicazione, ognuno di noi (A) sta dicendo all’altro: Ecco come mi vedo. L’altro (B), a sua volta, può avere almeno tre possibili reazioni.

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Conferma: B accetta la definizione che A dà di sé. La conferma sostanzialmente dice: Tu hai ragione. Questo è molto importante per lo sviluppo di stabilità mentali. Gran parte delle comunicazioni hanno proprio questo scopo. L’essere umano sente il bisogno di comunicare per avere una maggiore consapevolezza di sé. Rifiuto: B rifiuta la definizione che A dà di sé. Il rifiuto sostanzialmente dice: Tu hai torto. Ma il rifiuto presuppone il riconoscimento, sia pure limitato, di quanto si rifiuta e, quindi, non nega necessariamente la realtà del giudizio di A su di sé. Semplicemente, non la condivide. Disconferma: B nega la realtà di A come emittente. La disconferma sostanzialmente dice: Tu non esisti. La disconferma è completamente diversa dal rifiuto, in quanto essa porta alla perdita del sé: non riguarda, infatti, la verità o la falsità della definizione che A dà di sé, ma nega la realtà di A come emittente di tale definizione.

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Queste tre possibili reazioni hanno un denominatore comune. Con ognuna di esse, B comunica a A: Ecco come ti vedo. Si stabilisce, così, una catena in teoria infinita: A: Ecco come mi vedo. B: Ecco come ti vedo. A: Ecco come vedo che mi vedi. B: Ecco come vedo che mi vedi che ti vedo.

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La condizione che consente una interazione efficace è che ciascuna parte si renda conto del punto di vista dell’altra. Ciò presuppone la consapevolezza delle percezioni interpersonali dell’interazione, la cui mancanza produce impenetrabilità. Nella comunicazione interpersonale è possibile individuare almeno due livelli d’impenetrabilità: A pensa che B non lo capisca, mentre B da parte sua può presumere che A si senta capito. In questo caso, B non è in disaccordo con A, ma ignora o fraintende il messaggio di A. A non si accorge che il suo messaggio non è giunto a B. In questo caso, all’impenetrabilità si reagisce con l’impenetrabilità.

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Il terzo assioma sancisce che gli scambi comunicativi non costituiscono una sequenza ininterrotta, ma sono organizzati proprio come se seguissero una sorta di punteggiatura. In tal modo, è possibile identificare le sequenze di chi parla e di chi risponde, come pure definire ciò che si considera come causa di un comportamento, distinguendola dall’effetto. I modi di punteggiare una sequenza di eventi comunicativi sono molto diversi e possono generare conflitti di relazione.

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Il quarto assioma sancisce che l’essere umano è il solo organismo vivente che, nel comunicare, utilizza modalità sia di tipo numerico (digitale) sia di tipo analogico. Il linguaggio digitale consiste nell’uso della comunicazione verbale e riguarda il contenuto della comunicazione. Il linguaggio analogico consiste, invece, nell’uso della comunicazione non verbale e paraverbale (gesti, espressioni del volto, postura del corpo, inflessioni della voce, sequenza del ritmo, cadenza, pronuncia…) e riguarda la relazione tra i comunicanti.

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L’attività di comunicare comporta anche la capacità di coniugare questi due linguaggi, e di tradurre dall’uno all’altro i messaggi ricevuti e quelli da trasmettere; anche se, in entrambi i casi, è difficile tradurre e si possono commettere alcuni errori. In particolare, quando si traduce da un linguaggio digitale ad uno analogico, considerato che quest’ultimo manca di molti elementi che invece il primo ha e che, pertanto, vanno aggiunti nella traduzione, uno degli errori fondamentali che si compiono è quello di supporre che un messaggio analogico sia, per sua natura, assertivo o denotativo. Nel tradurre, invece, da un messaggio analogico ad uno digitale, si tende ad aggiungere funzioni di verità logiche che mancano al modulo analogico; tale assenza si nota maggiormente quando si deve negare: una capacità, questa, che l’analogico non possiede.

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ll quinto assioma sancisce che in una relazione simmetrica (caratterizzata dall’uguaglianza) il comportamento dell’uno tende a rispecchiare quello dell’altro, mentre in una relazione complementare (caratterizzata dalla differenza) uno assume una posizione superiore (one-up) e l’altro una posizione inferiore (one-down). Tuttavia, come ogni altro modello di relazione, anche la simmetria e la complementarietà hanno le loro potenziali difficoltà e patologie.

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In una relazione simmetrica, dove è sempre presente il rischio della competitività, una potenziale patologia è caratterizzata da uno stato più o meno aperto di conflitto e, se si arriva ad una rottura, si osserva che il partner rifiuta - piuttosto che disconfermare - il sé dell’altro. Viceversa, in una relazione simmetrica sana i partner sono in grado di accettarsi come sono; il che li porta alla fiducia e al rispetto reciproci e, dunque, ad una conferma dei rispettivi sé. Anche nelle relazioni complementari ci può essere la stessa conferma sana e positiva; tuttavia, in caso di potenziali patologie che portano alla rottura, si osserva che il partner arriva a disconfermare - piuttosto che rifiutare - il sé dell’altro.

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Il modello pragmatico mette in luce che la dinamica complessa della comunicazione umana dipende dal fatto che essa si situa sempre in una relazione interpersonale e contribuisce a formarla. Anche questo modello, tuttavia, si rivela insoddisfacente per un approccio sociologico alla comunicazione, poiché tende: a presentare la comunicazione umana come una sequenza di atti separati di scambio comunicativo, con un inizio e una fine precisamente determinabili. a distinguere gli aspetti di contenuto (digitali) da quelli di relazione (relazione) che, nella comunicazione umana, concorrono insieme a determinare il senso della comunicazione.

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Il modello dialogico Il terzo modello intende la comunicazione come un processo nel quale i comunicanti sono, al tempo stesso, emittenti e riceventi e, interagendo l’uno con l’altro, contribuiscono congiuntamente a creare la relazione comunicativa e i significati degli scambi comunicativi. Per tentare di spiegare come avvenga la comunicazione secondo questo modello, possiamo osservare cosa accade nel corso di una conversazione, che costituisce una delle pratiche comunicative più diffuse della vita quotidiana.

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Utilizzando il modello della trasmissione, potremmo affermare che chi parla è l’emittente, chi ascolta il ricevente; il canale che veicola la comunicazione è la voce, l’apparecchio trasmittente la bocca, l’apparecchio ricevente l’orecchio; il codice utilizzato è il linguaggio verbale. Ma tutto ciò si rivela del tutto insufficiente a spiegare cosa accade davvero nel corso di una conversazione, dove comunemente alle parole si affianca la gestualità degli interlocutori la quale, se pure non rappresenta il canale principale che veicola la comunicazione (considerato che si tratta di una conversazione), non può certo essere considerata come mero “rumore”. Al contrario, gli aspetti non verbali della comunicazione, in quanto insieme di segni dotati di un codice che può essere decodificato dagli interlocutori, sono elementi significativi, qualcosa che la qualifica e produce effetti sia su colui che parla sia su colui che ascolta.

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Tale considerazione induce ad affermare che la conversazione è una forma comunicativa che utilizza, contemporaneamente, una molteplicità di canali e di codici. Ciò vale per qualsiasi altra forma di comunicazione umana la quale avviene, normalmente, su tre livelli: Verbale Paraverbale Non verbale

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Il verbale fornisce il contenuto della comunicazione: nel caso della oralità, ciò avviene attraverso il parlare; nel caso della scrittura, il contenuto è dato, invece, dalle parole impresse su foglio (o su qualsiasi altro supporto). Il paraverbale riguarda altri aspetti quali, ad esempio, la qualità della voce (tono, ritmo), la vocalizzazione (emissione di suoni, velocità di eloquio), la pronuncia (sospensioni, inflessioni dialettali). Il non verbale, definito anche “linguaggio del corpo”, è costituito da ulteriori elementi quali, ad esempio, lo sguardo, la mimica facciale, le espressioni del volto, la gestualità, la postura del corpo, i movimenti del tronco, degli arti, del capo, la distanza interpersonale, l’abbigliamento, ecc. Tutti questi aspetti contribuiscono, congiuntamente, a conferire senso alla comunicazione.

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Accade spesso che questi tre livelli non siano in sintonia tra loro: ad esempio, se nel corso di una conversazione dico al mio interlocutore che lo sto ascoltando attentamente ma, intanto, il mio sguardo è perso nel vuoto, si palesa una evidente contraddizione tra la mia comunicazione verbale (Ti ascolto, non ti preoccupare) e quella non verbale (il mio sguardo perso nel vuoto tradisce l’attenzione dichiarata al discorso). È altrettanto consueto che in una conversazione intervengano alcune difficoltà quali, ad esempio, i rapporti gerarchici, lo stato emotivo, i pregiudizi, le differenti percezioni, che possono comprometterne il buon funzionamento.

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Tali esempi inducono a considerare la dinamica complessa che caratterizza la comunicazione umana. A tale proposito, possiamo osservare che una conversazione, oltre a consentire uno scambio d’informazioni, assolve anche ad una molteplicità di funzioni sociali – quali, ad esempio, convincere, sedurre, passare il tempo, manifestare amicizia, mettersi in mostra, denigrare, imbrogliare, ammansire… – che, di norma, si sovrappongono l’una all’altra. Questo fa sì che una conversazione – come qualsiasi altra forma di comunicazione umana – sia un processo bidirezionale e dinamico, il cui significato è ben più complesso di una mera decodifica dei segnali trasmessi, come vorrebbe il modello della trasmissione.

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Secondo quest’ultimo, infatti, il destinatario (colui al quale il messaggio è diretto) è sostanzialmente passivo: ciò che deve fare è, semplicemente, decodificare il segnale. In realtà, in una conversazione il destinatario non è mai passivo: anche l’attività di decodifica è, per l’appunto, un’attività la cui realizzazione comporta una serie di problemi che il modello della trasmissione non prevede, ma che sono rilevanti per comprendere come avviene il processo comunicativo, tanto che il passaggio da un segno al suo significato, e la congruenza tra i significati che interlocutori diversi assegnano agli stessi segni, rappresentano questioni di grande interesse in un approccio sociologico alla comunicazione.

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Nel corso di una conversazione, l’ascoltatore presta ascolto (se non lo facesse, il processo comunicativo s’interromperebbe) e, assieme al parlante, contribuisce a definire la situazione in cui entrambi si trovano coinvolti. Si tratta di una definizione tacita, in progress, che può essere sottoposta a continui riaggiustamenti, ma è un accordo senza il quale nessuna condivisione del senso sarebbe possibile. La situazione è la cornice (il concetto goffmaniano di frame) che permette di comprendere di cosa si tratta.

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Inoltre, colui che ascolta può fare domande, interloquire, prorompere in esclamazioni, manifestare – con diversi segnali – assenso o dissenso, comprensione o incomprensione riguardo a ciò che il parlante dice. Del resto, anche il silenzio e l’immobilità possono essere una forma di responsione al discorso, come dimostra il modello pragmatico. L’ascoltatore, pertanto, invia a chi parla un continuo flusso di feed-back di cui il parlante si serve per valutare l’effetto delle proprie parole e per aggiustare via via il proprio dire, cercando le parole più convincenti o più chiare. Ciò significa che la conversazione non è un processo di comunicazione unidirezionale, ma bidirezionale; in quanto tale, il modo più adeguato per descriverla è quello di un flusso circolare.

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In ogni caso, il senso di una conversazione – e, più in generale, della comunicazione umana – non si desume esclusivamente dall’aspetto verbale, ma è dato dall’insieme dell’interazione e dalla conoscenza della situazione e della cultura dei parlanti, i quali rivestono determinati ruoli che hanno a che fare con la stratificazione sociale della società in cui vivono, e con la sua storia. A ruoli sociali differenti competono, peraltro, diverso prestigio e diverso potere. Non a caso, anche quando le parole proferite da qualcuno sono le stesse e sono dette allo stesso modo da qualcun’altro, il loro peso può essere diverso a seconda di chi è che parla.

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I partecipanti ad una conversazione conoscono e condividono le regole culturali che governano il processo comunicativo. Prestigio e potere non sono esplicitati nel messaggio verbale ma, come altri elementi, essi fanno parte di quei presupposti senza i quali la conversazione – e la comunicazione umana nel suo complesso – non sarebbe possibile o, quanto meno, non pienamente comprensibile nei suoi significati ed effetti, giacché sono quei presupposti culturali che spiegano, ad esempio, perché le parole di qualcuno possano godere di particolare credito.

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In tutto ciò – e in altro ancora – consiste il modello dialogico (sicuramente, quello più consono ad un approccio sociologico alla comunicazione), secondo il quale non vi è tanto chi parla e chi ascolta, ma chi parla e chi è chiamato a rispondere all’interno di una situazione definita in comune. Se si utilizza questo modello come chiave di lettura della comunicazione umana, c’è un aspetto – evidenziato dall’approccio pragmatico – che appare inverosimile: quello per cui la comunicazione sarebbe un processo dotato di un inizio e di una fine precisamente determinabili.

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Nella vita quotidiana, questa condizione si presenta di rado. Ogni segmento comunicativo presuppone una comunicazione precedente e, nello stesso tempo, costituisce il presupposto della comunicazione successiva. I segmenti di un processo comunicativo sono, infatti, per lo più incomprensibili se si isolano in frammenti e non si considerano nella loro sequenza. Nel corso di una conversazione, ciò è quanto mai evidente: le parole di qualcuno hanno il senso che hanno perché seguono a quelle di qualcunaltro; quelle di quest’ultimo sono una risposta alle parole del primo, le quali conseguono a ciò che era stato detto prima da altri parlanti, e così via.

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Indubbiamente, anche le conversazioni hanno una loro punteggiatura: esse si aprono e si chiudono, i parlanti prendono a turno la parola (aspetti, questi, studiati dall’etnometodologia); tuttavia nessuna conversazione rappresenta mai un inizio assoluto. Come afferma Michail Bachtin (1), nessuno è mai il primo a parlare: ogni parola che proferiamo presuppone parole proferite da altri; ogni frammento di comunicazione è inserito in una catena dialogica. (1) M. Bachtin, L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1988.

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Ciò significa anche che i partecipanti ad una conversazione sono impegnati a costruire – non solo attraverso le parole – una certa rappresentazione della realtà. Questa, del resto, è una delle funzioni principali della comunicazione umana. Comunicare è, infatti, un aspetto fondamentale di quell’incessante lavorìo di mediazione simbolica (1) mediante il quale ci sforziamo di dare ordine alla realtà in cui viviamo, di attribuire un senso a ciò che accade, di mettere in comune con gli altri una certa rappresentazione della realtà. (1) F. Crespi, Manuale di Sociologia della cultura, Laterza, Roma-Bari 1996.


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