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Dott.ssa Alessandra Molinari

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Presentazione sul tema: "Dott.ssa Alessandra Molinari"— Transcript della presentazione:

1 Dott.ssa Alessandra Molinari
LA PROTEZIONE GIURIDICA DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI DI QUALITA’ IN ITALIA E NELL’UNIONE EUROPEA Dott.ssa Alessandra Molinari

2 Introduzione Asimmetria informativa fra produttori e consumatori nel sistema agroalimentare circa gli attributi qualitativi del prodotto (caratteristiche organolettiche, valore nutritivo, salubrità) Soddisfazione insicura dei bisogni del consumatore Comportamenti di autodifesa contro l’incertezza qualitativa La qualità del prodotto agricolo è indubbiamente un aspetto importante per l’impresa anche se da sola, la qualità del prodotto, non garantisce l’obiettivo del reddito. Per trasformare la qualità del prodotto in un prezzo remunerativo occorre prestare attenzione ai problemi concernenti il riconoscimento della qualità da parte del consumatore e riguardanti il trasferimento dell’informazione sulla qualità stessa agli altri operatori lungo la filiera del prodotto agro-alimentare. Il prodotto agricolo fresco presenta delle disomogeneità fisiche evidenti anche a prima vista, a causa della variabilità spaziale e temporale delle condizioni ambientali e tecnologiche delle aziende agrarie. In tali condizioni, la raccolta dell’informazione sul prodotto, specie se commercializzato in forma anonima, non può essere condotta una volta per tutte ma deve essere continuativa nel tempo. Questo processo risulta estremamente difficile e in definitiva molto costoso. Gli attributi qualitativi dunque dei prodotti agroalimentari non sono valutabili se non in seguito all’acquisto e dunque all’esperienza diretta; inoltre , per molti di essi, l’esperienza accumulata può ridurre ma non eliminare completamente l’incertezza circa la “qualità” di un prodotto negli acquisti successivi. Appare dunque evidente che il problema principale per il consumatore è legato al grado di informazione che riesce ad ottenere sul prodotto, relativamente a tutti gli attributi che possono essere di qualche interesse: caratteristiche organolettiche; valore nutritivo; salubrità. Non è invece necessariamente nell’interesse del produttore fornire un’informazione completa sul prodotto, in considerazione del fatto che può sfruttare a proprio vantaggio, in termini di profittabilità, l’incertezza così determinata. Mentre per quanto riguarda le caratteristiche organolettiche (che interagiscono con i gusti personali) l’esperienza acquisita riveste una certa importanza, riducendo l’incertezza del consumatore, per gli altri aspetti il consumo ripetuto non è di norma in grado di fornire un incremento delle conoscenze. L’esistenza di questa incertezza si ripercuote in misura notevole sugli agenti di mercato. Sul consumatore, soprattutto in quanto non consente una soddisfazione sicura dei propri bisogni, genera un rischio legato alla non conformità dell’alimento alle proprie aspettative. Il singolo individuo può di conseguenza adottare una serie di comportamenti di autodifesa quali una certa ripetitività degli acquisti, una fedeltà al marchio e/o al punto vendita, una tendenza a non rischiare su prodotti non conosciuti, il ricorso all’acquisto di prodotti di prezzo maggiore e con reputazione certa, pagando così una sorta di premio di assicurazione contro l’incertezza qualitativa.

3 Gli indicatori di qualità di tipo non istituzionale
Aspetto Promozione Prezzo Reputazione del venditore e/o del punto vendita  costi aggiuntivi per il consumatore (tempo, ricerca ed acquisizione della conoscenza)  costi aggiuntivi di penetrazione sul mercato per il produttore (investimenti in promozione e reputazione)  costanza nel tempo degli attributi Diventano a questo punto fondamentali gli indicatori di qualità di tipo non istituzionale, quali l’aspetto, la promozione, il prezzo, la reputazione del venditore e/o del punto vendita e, ove, possibile, l’ispezione prima dell’acquisto: il loro utilizzo comporta comunque un costo aggiuntivo per il consumatore, in termini di tempo, ricerca e acquisizione della conoscenza. Per il produttore tutto ciò si può tradurre in costi aggiuntivi di penetrazione sul mercato (quali investimenti in promozione e in reputazione) e la necessità di mantenere costanti nel tempo le caratteristiche del prodotto, così da evitare fenomeni di insoddisfazione legati ad una loro eccessiva variabilità.

4 La reputazione Espansione delle quote di mercato
Incremento del livello di competitività attraverso la trasferibilità della propria reputazione  causa dei processi di diversificazione delle imprese alimentari e dello sviluppo delle marche commerciali GdO Importanza informativa: possibilità di qualificare con elevata approssimazione un prodotto I prodotti della moderna industria alimentare tendono, ove possibile, a caratterizzarsi per la costanza nel tempo dei loro attributi. L’affermarsi di marchi (e quindi di reputazione) da parte di alcune imprese consente poi di espandere le proprie quote di mercato e di trasferire tale reputazione su altre categorie di prodotti, incrementando il livello di competitività. Questa trasferibilità della reputazione consente minori costi di penetrazione su mercati nuovi e di investimento in questo bene intangibile. Lo sviluppo della reputazione può essere considerato come una delle cause dei processi di diversificazione delle imprese alimentari e dello sviluppo delle marche commerciali della distribuzione organizzata. E’ evidente che, se il termine reputazione sta ad indicare la possibilità di qualificare con elevata approssimazione un prodotto, allora esso non è legato a prodotti di qualità elevata, poiché la domanda è diversificata e segmentata, e il rapporto qualità-prezzo rappresenta spesso una delle variabili decisionali: l’importanza della reputazione è sostanzialmente informativa, indipendente dal livello qualitativo associato, e si identifica con la garanzia per il consumatore di un prodotto con precise caratteristiche, costanti nel tempo. La presenza di una certa reputazione non annulla però completamente l’incertezza del consumatore, sia per la possibilità di trasmissione distorta da parte del produttore circa le caratteristiche non direttamente rilevabili dall’individuo.

5 Interventi non istituzionali che mirano a favorire la trasparenza del mercato
Standard minimi di qualità Disciplinare di produzione Denominazioni d’origine Norme sull’etichettatura Regolamentazione attività pubblicitaria Istituzione organismi di controllo e mercati di informazione Registrazione di marchi  mirano ad evitare un progressivo degrado della qualità media  tuttavia, l’esistenza di market failures fa si che l’intervento istituzionale possa accrescere il benessere complessivo Gli interventi di tipo non istituzionale che mirano a favorire la trasparenza del mercato e quindi la trasmissione dell’informazione sono: gli standard minimi di qualità, i disciplinari di produzione, le denominazioni d’origine, le norme sull’etichettatura, la regolamentazione dell’attività pubblicitaria, l’istituzione di organismi di controllo e di mercati di informazione, il riconoscimento e la registrazione di marchi. Interventi di questo tipo mirano ad evitare un progressivo degrado della qualità media del prodotto presente sul mercato, in quanto l’incertezza relativa a certe caratteristiche qualitative incentiva i produttori a commercializzare prodotti con livelli subottimali di tali caratteristiche. Tale incertezza determina comportamenti d’acquisto particolari, a seguito della minore disponibilità del consumatore a pagare per un prodotto di qualità incerta. L’esistenza di “market failures”, legate all’impossibilità da parte dei meccanismi di mercato di trasmettere compiutamente l’informazione qualitativa, fa si che l’intervento istituzionale possa accrescere il benessere complessivo eliminando e/o riducendo gli incentivi a commercializzare prodotti scadenti. Occorre comunque dire che molti dei prodotti della moderna industria alimentare godono di un notevole grado di standardizzazione qualitativa, per cui, fatto salvo il rispetto delle norme igienico-sanitarie, l’esperienza del consumatore fornisce una informazione quasi completa circa la qualità del prodotto.

6 Perché si interviene a livello istituzionale
Salvaguardia della salute dei consumatori Nascita del Mercato Unico  ruolo principale per prodotti definiti tradizionali e per prodotti agricoli destinati all’alimentazione umana (dove rimane sempre una certa variabilità qualitativa) Una prima ragione di intervento istituzionale è pertanto legata alla salvaguardia della salute dei consumatori: tale ruolo istituzionale è ormai pratica consolidata, per cui le varie normative nazionali fissano criteri generali di igiene, requisiti sanitari, additivi che possono essere utilizzati. La nascita del Mercato unico ha richiesto una progressiva armonizzazione delle singole normative per favorire la libera circolazione degli alimenti. Ma il ruolo principale degli interventi istituzionali si manifesta per prodotti definiti tradizionali e per prodotti agricoli destinati all’alimentazione umana dove rimane sempre possibile una certa variabilità qualitativa.

7 I marchi collettivi: la prima forma di tutela giuridica
Washington 1911: revisione della Convenzione di Parigi 1883 A differenza del marchio individuale, tale marchio appartiene alla collettività Ruolo: transizione dalla concorrenza perfetta alla concorrenza monopolistica  differenziazione del prodotto Funzione: garanzia di qualità Diverse categorie di marchi collettivi  MELINDA/PRODOTTO BIOLOGICO Il successo del marchio dipende dalla capacità del titolare del marchio di conquistare la fiducia del consumatore e non dalla qualità del bene  esempio: marchio collettivo LANA VERGINE Necessità di un adeguato riconoscimento in sede internazionale Ogni riferimento al “mercato agricolo” evoca immediatamente la concorrenza perfetta. Questa connessione trova origine e spiegazione nella storia economica del settore agricolo. Storicamente, il numero delle imprese agricole è molto elevato; l’omogeneità dei prodotti agricoli, specialmente quando si tratta di materie prime destinate all’industria di trasformazione alimentare, è piuttosto evidente; le barriere all’entrata del settore sono pressoché inesistenti. Il mercato agricolo in altri termini rispetta le condizioni di fondo richieste affinché sussista concorrenza perfetta. Il riferimento alla concorrenza perfetta non si addice però all’interpretazione dell’evoluzione del mercato di alcuni prodotti agricoli freschi, dei prodotti cioè che non richiedono la trasformazione industriale. Per taluni prodotti agricoli commercializzati allo stato fresco la omogeneità è un’ipotesi astratta, incongruente con la corrente realtà di mercato. Gli operatori commerciali ed i consumatori riconoscono infatti l’esistenza di fattori territoriali di differenziazione del prodotto agricolo fresco, associano cioè la qualità del prodotto a delle specifiche condizioni climatiche ed ambientali della zona di produzione. Il loro comportamento di acquisto non è perciò orientato esclusivamente alla ricerca del prodotto con il prezzo più basso, come dovrebbe accadere in concorrenza perfetta. Gli stessi produttori agricoli avvertono che dalla rimozione della condizione di omogeneità dei loro prodotti possono ottenere dei benefici; cercano perciò di rendere palese la differenziazione qualitativa intrinseca nel prodotto per raggiungere una segmentazione del mercato. Soprattutto l’applicazione del marchio al prodotto agricolo fresco, sottoforma di bollino o sulla confezione, rende manifesto il superamento della condizione di omogeneità del prodotto e palesa la rottura della perfetta concorrenzialità del mercato. In presenza marchi la scelta di acquisto avviene tra prodotti differenziati anche se tra loro collegati da un rapporto di sostituibilità. I produttori avvertono che dalla differenziazione qualitativa del prodotto possono ottenere dei vantaggi come sostegno al reddito presente e futuro. Talvolta è il produttore singolo, più spesso quello associato, che ragiona secondo una logica di filiera e giunge al prefigurare azioni commerciali per il riconoscimento economico della qualità del suo prodotto da parte del consumatore e degli operatori intermedi di filiera. Il marchio collettivo stimola la differenziazione dei prodotti agricoli nella convinzione che questa sia una carta vincente per creare anche in agricoltura condizioni di superamento dell’apparente omogeneità del prodotto e della concorrenza perfetta per avvicinarsi alla concorrenza monopolistica. La concorrenza monopolistica implica la trasformazione della disomogeneità qualitativa dovuta alla peculiarità di uno o più Attributi (sapore, gusto, etc) in differenziazione esplicita pere rendere il prodotto riconoscibile nel tempo e nello spazio agli occhi del consumatore e degli operatori commerciali che agiscono lungo la filiera. La prima fonte di tutela giuridica dunque di cui hanno beneficiato i prodotti agroalimentari è rappresentata dall’impiego di marchi collettivi, nati dall’aggregazione di produttori. Il marchio collettivo in quanto tale nasce nel 1911 a Washington a seguito della revisione della Convenzione di Parigi del 1883 sui diritti di proprietà industriale. Tale marchio, a differenza di quello individuale che identifica il prodotto fabbricato o messo in commercio dal suo titolare al quale viene riservato per legge l’utilizzo del marchio stesso, appartiene alla collettività. Il marchio collettivo svolge una funzione di garanzia di qualità, mentre lo stesso discorso non vale per i marchi individuali o d’impresa. Nel caso del marchio individuale l’imprenditore può modificare a suo piacimento, in meglio o in peggio, la qualità dei propri prodotti, pur continuando a contrassegnarli con lo stesso marchio. Le imprese che fruiscono del marchio collettivo non possono invece abbassare arbitrariamente il livello qualitativo al di sotto degli standard previsti da un apposito regolamento. Esistono diverse categorie di marchi collettivi: d’origine, di materia prima, di trattamento, sindacali, e di qualità. Si rileva una certa difficoltà nell’identificare una linea di separazione tra le diverse categorie di marchi collettivi. Si pensi ad esempio alla differenza tra marchio d’origine e marchio di qualità. Tra le due categorie non vi è una netta distinzione, perché il prodotto tipico proveniente da un determinato luogo segnala che il prodotto possiede degli attributi intrinseci generali dalle peculiari condizioni ambientali in cui è stato prodotto. Il marchio “di qualità” allo tesso modo, nella misura in cui la qualità dipende dalle caratteristiche del territorio, può indicare il prodotto di una certa zona. Esiste comunque una differenza rilevante tra marchio di origine e di qualità. Mentre con il marchio d’origine si attesta solo la provenienza da una determinata area, e non vengono richiesti standard di qualità da controllare, questi ultimi diventano indispensabili per il funzionamento di un marchio di qualità. Nella realtà la maggior parte dei marchi collettivi operanti in Italia nella fase della commercializzazione delle mele per esempio (Melinda, Trentina, etc) sono allo stesso tempo d’origine e di qualità. Un marchio esclusivamente di qualità è quello del prodotto “biologico” perché fa riferimento a prodotti caratterizzati da requisiti di qualità derivanti dalle tecniche colturali prestabilite, indipendentemente dalla zona di provenienza del prodotto. Il successo del marchio collettivo non dipende quindi dalla qualità del bene del singolo produttore, bensì dalla capacità del titolare del marchio stesso di far sì che il consumatore arrivi a nutrire fiducia nel marchio come tale, indipendentemente, dal bene prodotto dal singolo produttore o dal servizio offerto dal singolo prestatore. Il marchio collettivo avrà conseguentemente successo se il suo titolare saprà garantire la qualità del bene o del servizio da esso contraddistinti, conquistando la fiducia del consumatore che sarà spinto ad acquistare il bene o il servizio anche ignorando, al limite, l’identità del singolo produttore del bene o del singolo prestatore del servizio. Un esempio può chiarire meglio i concetti appena esposti. Ammettiamo che un produttore di lana voglia utilizzare il famoso marchio collettivo “lana vergine”. Il produttore, che può trovarsi ad operare in qualsiasi paese del mondo, deve soltanto assoggettarsi al regolamento del consorzio che conferisce il marchio al quale paga il relativo contributo. Ciò non significa ovviamente che solo quelli che usano il marchio impieghino lana vergine. Anzi, se un produttore è così abile, capace e finanziariamente solido da affermare sul mercato il proprio marchio di fabbrica accanto alla parola “lana vergine”, che è appunto una denominazione tradizionale di vendita del prodotto, riuscirà a vincere la concorrenza anche degli altri produttori che usano il marchio “lana vergine” (nome + marchio figurativo del Consorzio). Tali marchi necessitavano tuttavia di un adeguato riconoscimento in sede internazionale per poter essere giuridicamente riconosciuti al di fuori dei confini dello Stato nel quale risultavano registrati.

8 Libertà di circolazione dei prodotti agroalimentari nell’Unione Europea
La Comunità Economica Europea, costituita a Roma il 23 Marzo 1957, è fondata sul principio della libera circolazione dei prodotti all’interno del mercato unico europeo (art. 28 del Trattato)  di difficile applicazione in presenza di normative nazionali discordanti (circa la fabbricazione, la composizione e la presentazione dei prodotti – soprattutto alimentari) Uno dei principi basilari dell’ordinamento comunitario riguarda la libertà di circolazione dei prodotti nel mercato unico europeo garantita dall’art.28 del trattato UE. Tale principio però risulta di difficile applicazione in presenza di normative degli Stati Membri destinate a disciplinare in modo divergente la fabbricazione, la composizione e la presentazione dei prodotti (soprattutto alimentari) sul mercato Europeo. In effetti, in presenza di regolamentazioni nazionali discordanti, con riferimento alla fabbricazione, alla composizione e alla presentazione sul mercato dei prodotti alimentari, la Comunità Europea ha inizialmente tentato una armonizzazione di tali regolamentazioni essenzialmente allo scopo di eliminare le disposizioni divergenti che finivano per creare ostacoli alla libera circolazione delle merci nell’area comunitaria.

9 Programma di riavvicinamento delle normative
Seconda metà degli anni ’60: principio dell’abolizione fra gli Stati membri dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all’entrata ed all’uscita delle merci 1969 Direttiva 70/50/CEE: soppressione delle misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative all’importazione Tentativo di armonizzazione legislativa RISULTATI INEFFICACI Costi onerosi in considerazione della mole di direttive che sarebbe stato necessario emanare Difficoltà di convincere i singoli Stati membri a modificare le proprie disposizione interne Necessità dell’unanimità nelle deliberazione A tal fine dalla seconda metà degli anni ’60 la Comunità Europea si è impegnata a perseguire il principio dell’ “abolizione fra gli Stati membri dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all’entrata ed all’uscita delle merci come pure di tutte le altre misure di effetto equivalente”. Un secondo risultato in tal senso è rappresentato dalla Direttiva 70/50/CEE del Consiglio del 22 Dicembre 1969, relativa alla soppressione delle misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative all’importazione. A tale direttiva ha fatto seguito un tentativo di armonizzazione legislativa dimostratosi però eccessivamente oneroso in considerazione della mole di direttive che sarebbe stato necessario emanare per realizzare l’opera di riavvicinamento normativo e dell’eccessiva burocratizzazione del processo di approvazione di tali direttive. In tentativi sono stati numerosi ma i risultati ottenuti per via normativa sono stati scarsi a causa delle difficoltà di convincere i singoli Stati membri a modificare le proprie disposizioni interne per allinearle a quelle degli altri Stati membri. Tali difficoltà risultavano per di più ingigantite dalla necessità di raggiungere l’unanimità nelle deliberazioni da adottare in conformità a quanto disposto dal Trattato, che rappresentava la sola base giuridica per l’adozione di direttive di armonizzazione.

10 Il ruolo della Corte di Giustizia
Attraverso una ricca giurisprudenza, la Corte di Giustizia ha determinato le basi per l’osservanza dei principi sanciti nell’art.28 del Trattato 1974 Sentenza di DASSONVILLE : concetto di “misura equivalente”  caso dello Scotch Whisky acquistato in Francia e rivenduto in Belgio 1979 Sentenza CASSIS DE DIJON: principio del “mutuo riconoscimento”  caso del liquore francese Cassis de Dijon importato in Germania Nel decennio successivo, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla Corte di giustizia che, attraverso una ricca giurisprudenza , ha determinato le basi per la valutazione dell’osservanza dei principi sanciti nel trattato di Roma in materia di libera circolazione delle merci. A questo proposito due sono le sentenze che hanno svolto un ruolo decisivo nei successivi orientamenti legislativi della Comunità Europea. La prima – la sentenza di “Dassonville” – risale al In questa sentenza viene chiarito il concetto di “misura equivalente” da intendersi come “ogni normativa commerciale nazionale che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o potenza, gli scambi intracomunitari”. La sentenza si riferisce al caso dello Scotch Whisky acquistato in Francia da parte del grossista Dassonville il quale aveva successivamente messo in commercio il liquore sul mercato belga senza certificato d’origine – non previsto dalla legislazione francese – ma obbligatorio secondo la legislazione belga. Secondo la sentenza della Corte di giustizia, l’obbligo di presentare la documentazione rappresentava una misura d’effetto equivalente in grado di ostacolare gli scambi commerciali. La sentenza che ha però impresso una svolta negli orientamenti legislativi in materia di libera circolazione delle merci è la causa “Cassis de Dijon” del 1979 che ah affrontato il problema delle barriere scaturenti dalla diversa regolamentazione tecnica. Il caso riguardava l’importazione in Germania di un liquore francese – il Cassis de Dijon – caratterizzato da una gradazione alcolica inferiore al minimo stabilito dalla legge tedesca in materia. Il governo tedesco, invocando la normativa nazionale e la tutela dei consumatori, impediva la vendita del liquore francese sul proprio territorio. La Corte di Giustizia ha riconosciuto che, in mancanza di una normativa comune in materia di bevande alcoliche, ciascun Stato membro è libero di disciplinare, nel proprio territorio, tutto ciò che riguarda la produzione e la commercializzazione degli alcolici ma che l’estensione dell’osservanza di una gradazione alcolica minima alle bevande importate, legalmente prodotte e commercializzate in un altro Paese membro, rappresenta una misura d’effetto equivalente e pertanto non esiste alcun valido motivo per impedire che il Cassis de Dijon, legalmente prodotto e messo in vendita in Francia, venga introdotto in Germania. In questa sentenza viene sancito il principio del “mutuo riconoscimento”, secondo il quale le merci prodotte a norma di legge e messe in commercio in un Paese comunitario non possono essere rifiutate dagli altri Stati membri “senza che ricorrano motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza di tutela della salute e della vita delle persone”, esteso a tutti i prodotti oggetto di scambio all’interno della Comunità.

11 Problematiche giuridiche
La giurisprudenza realizzata è applicabile a tutti i prodotti: industriali ed alimentari Il principio del “mutuo riconoscimento” si è rivelato inadatto per casi di prodotti alimentari dotati di caratteristiche qualitative particolari che li distinguono da altri prodotti similari e concorrenti  Il problema fu affrontato nel 1987 con la Sentenza SMANOR: denominazione di vendita “yogurt” La giurisprudenza esaminata prescinde totalmente dalle caratteristiche qualitative dei prodotti presi in considerazione e ciò sia che si tratti di prodotti industriali (meccanici, chimici, elettrici) oppure di prodotti alimentari. Ma il principio del mutuo riconoscimento si rivelava inadatto a risolvere i problemi relativi a prodotti alimentari dotati di caratteristiche qualitative particolari che li distinguonono da altri prodotti similari e concorrenti. Il problema è stato affrontato dalla Corte di giustizia nella causa Smanor nel 1987, la cui sentenza ha affermato che il principio della tutela dei prodotti aventi caratteristiche qualitative particolari prevale su quello della libera circolazione delle merci. In questa sentenza la Corte ha riconosciuto che quando il prodotto legalmente fabbricato in uno Stato membro e venduto in un altro Stato membro si discosta in modo notevole, per quanto riguarda la sua composizione o le sue caratteristiche qualitative, da quello fabbricato in quest’ultimo Stato membro ed lì commercializzato con una denominazione di vendita tradizionale, i giudici di questo Stato non sono tenuti ad applicare automaticamente il principio del mutuo riconoscimento ma possono pretendere che il prodotto proveniente dal primo Stato membro venga commercializzato, all’interno del territorio del Secondo Stato membro, con una denominazione di vendita diversa da quella impiegata per la vendita del prodotto nazionale tradizionale. La causa Smanor riguardava la denominazione di vendita “yogurt”, che in alcuni paesi membri viene riservata al prodotto contenente una elevata quantità di fermenti lattici vivi (es. Francia), mentre in altri Paesi può essere utilizzata anche se il prodotto risulta del tutto sprovvisto di tali fermenti lattici vivi (es. Olanda). A fronte di tale diversità di composizione del prodotto, la Corte di Giustizia non ha imposto al giudice francese che doveva applicare il principio del mutuo riconoscimento con la conseguenza di accettare, come legittimo, un prodotto che appariva del tutto diverso da quello tradizionale francese, ma che veniva presentato sul mercato francese con la stessa denominazione di vendita (yogurt). La Commissione dunque con tale sentenza riconosce che gli Stati membri nei quali la denominazione di vendita “yogurt” è riservata ad un prodotto contenente un’elevata quantità di fermenti lattici vivi, possono opporsi all’impiego della denominazione yogurt quando questa fosse utilizzata per designare un prodotto sprovvisto delle predette caratteristiche, anche se proveniente da un altro Paese membro nel quale fosse stato legalmente fabbricato e lì legittimamente commercializzato.

12 Conseguenze normative
La sentenza SMANOR ha posto in conflitto fra loro due Direzioni Generali della Commissione Europea: La Direzione generale del Mercato Interno La Direzione generale dell’Agricoltura  L’indirizzo della Direzione generale dell’Agricoltura è stato quello vincente, sfociato nell’adozione dei due regolamenti 2081/92 e 2082/92 Tale sentenza ha visto scontrarsi due Direzioni Generali della Commissione Europea: la Direzione Generale dell’Agricoltura, interessata a promuovere e valorizzare la qualità dei prodotti agroalimentari e la Direzione Generale del Mercato Interno, orientata a tutelare la libera circolazione delle merci. L’indirizzo della Direzione Generale Agricoltura è stato quello vincente, sfociato nell’adozione dei due regolamenti 2081/92 e 2082/92 esaminati più avanti.

13 Gli obiettivi della nuova normativa comunitaria
Evitare l’appiattimento della produzione Impedire che il principio sancito del mutuo riconoscimento generi confusione nel consumatore, minori possibilità di scelta e contenziosi Permettere l’armonizzazione di specifiche normative nazionali I due nuovi regolamenti CEE hanno il preciso scopo di evitare un appiattimento della produzione, consentendo il perpetuarsi di talune tradizioni e patrimoni alimentari; di impedire che il principio sancito del mutuo riconoscimento generi confusione nel consumatore, minori possibilità di scelta, un numero eccessivo di contenziosi; di permettere l’armonizzazione di specifiche normative nazionali.

14 Considerazioni introduttive
La Comunità Europea, nel quadro del riorientamento della politica agricola comune, ha preso atto della funzione centrale dell’informazione sul prodotto: …“Data la diversità dei prodotti immessi sul mercato ed il numero elevato di informazioni da fornire al riguardo, il consumatore deve disporre, per operare una scelta ottimale, di informazioni chiare e sintetiche che forniscano esattamente l’origine del prodotto” …“è opportuno mettere a disposizione degli operatori economici strumenti atti a valorizzare i loro prodotti e nel contempo a tutelare il consumatore contro eventuali abusi garantendo la realtà delle transazioni commerciali”

15 Il regolamento 2081/92 La “denominazione di origine protetta” (DOP) garantisce ai prodotti la cui qualità e intero ciclo produttivo – dalla produzione della materia prima all’ottenimento del prodotto finito - dipende in maniera essenziale od esclusiva da un ambiente geografico, l’uso di una denominazione esclusiva in grado di identificare e distinguere il prodotto in questione dalla categoria generica di appartenenza

16 Il regolamento 2082/92 L’ “indicazione geografica protetta” (IGP) non prevede che l’intero processo produttivo debba necessariamente avvenire all’interno di un’area geografica ben definita, ma può applicarsi a quei prodotti finiti che presentino un legame geografico in termini di qualità e/o reputazione anche solo ad una particolare fase dell’intero ciclo produttivo

17 Effetti di mercato della nuova regolamentazione
Garantire una più completa informazione dei consumatori europei Offrire una protezione ai produttori che godono di particolari condizioni produttive “tradizionali”  eliminando la possibilità di una competizione allargata e sleale Maggiore segmentazione della domanda EFFETTI DI MERCATO DELLA NUOVA REGOLAMENTAZIONE Questa regolamentazione dunque ha un duplice obiettivo: da un lato di garantire una più completa informazione dei consumatori europei, dall’altro di offrire una protezione ai produttori che godono di particolari condizioni produttive “tradizionali”, assolutamente specifiche e diverse da quelle comuni a prodotti similari. Tale protezione vuole eliminare la possibilità di una competizione allargata e sleale, che consenta lo sfruttamento indebito di tipologie di prodotto affermatesi per tradizione e fino ad oggi protette da legislazioni nazionali. Questo sfruttamento indebito garantirebbe una elevata profittabilità, non proporzionale alla effettiva qualità del prodotto, con conseguenze negative sia a breve che a lungo termine sui produttori nazionali: a breve soprattutto in termini di competizione diretta, a lungo in termini di perdita di reputazione, scadimento della qualità, fino alla scomparsa del prodotto tradizionalmente definito. Il pericolo di uno scadimento della qualità, e in ultima analisi di reputazione, è legato anche a comportamenti di free rider da parte degli stessi associati, i quali possono adottare delle strategie tese alla riduzione dei costi di produzione e/o all’ampliamento indebito della propria quota individuale di mercato agendo sotto l’ombrello protettivo della reputazione del prodotto. La protezione accordata a talune produzioni consente una maggiore segmentazione della domanda: garantisce infatti una categoria di qualità elevata senza precludere all’esistenza o all’introduzione di prodotti sostitutivi e/o similari, presumibilmente di qualità e prezzo inferiori, che comunque non possano usufruire di una reputazione consolidata. Da questo punto di vista la possibilità di scelta del consumatore non viene limitata, e neppure le opportunità di mercato per le imprese del settore, qualora tali opportunità sussistano realmente. Lo stesso consumatore moderno appare sempre più orientato verso prodotti che soddisfino non soltanto il suo bisogno primario di nutrizione, ma anche un certo piacere edonistico nel consumo dell’alimento. E’ importante infine che non vi sia un eccessivo proliferare di richieste di protezione: abbiamo l’esperienza del settore vitivinicolo dove l’eccessiva concessione di denominazioni d’origine ha ridotto le garanzie di qualità e reputazione che tale protezione si proponeva. Il consumatore deve inoltre riconoscere il valore della denominazione, deve cioè esistere un mercato tradizionale: la protezione acquista significato quando supera il confine prettamente locale, fatto di legame diretto tra produzione e consumo, e si apre a mercati più ampi, dove l’esigenza di informazione corretta e competizione leale nonché le opportunità di mercato si fanno consistenti.

18 Denominazioni di origine, indicazioni geografiche protette e SAU (000 ha) nell’Unione Europea aggiornato al 5 Ottobre 2005 – Fonte: portale dell’Unione Europea aggiornato al 2004 salvo diversa indicazione - Fonte: Eurostat Appare un netto divario tra Nord Europa [Finlandia, Belgio, Danimarca, Irlanda, Paesi Bassi, Svezia] con poche o nulle denominazioni e il Centro-Sud Europa che, al contrario, contribuisce fortemente al paniere delle tipicità 1 2.253 2 3.153 3 17.069 3 2.664 29 4.297 1.926 6 67 (05) 4 17.020 3 4 128 3.631 144 12 29.631 3.374 (03) 93 151 3.716 91 (03) 25.238 84 3.905 (00)

19 Le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche protette nell’Unione Europea aggiornato al 5 Ottobre 2005 – Fonte: portale dell’Unione Europea

20 Le tipicità alimentari italiane aggiornato al 5 Ottobre 2005 – Fonte: portale del Ministero delle Politiche Agricole ITALIA in linea con le denominazioni europee  prevalenza prodotti settore caseario ed ortofrutticoli Seguono in UE le carni fresche con 101 registrazioni, mentre in Italia questo comparto presenta solo 2 IGP L’Italia e l’UE si allineano nelle registrazioni delle preparazioni a base di carne (76 comunitarie, 28 nazionali) e con gli oli di oliva (90 UE e 30 made in Italy)

21 ORTOFRUTTICOLI E CEREALI
DOP e IGP: il paniere italiano aggiornato al 5 Ottobre 2005 – Fonte: portale del Ministero delle Politiche Agricole FORMAGGI CARNI TRASFORMATE ORTOFRUTTICOLI E CEREALI OLI E GRASSI OLIO DI OLIVA Dal punto di vista merceologico, Il paniere italiano si compone di 151 prodotti: 103 DOP e 48 IGP. La composizione di tale aggregato vede, in termini assoluti, un sostanziale equilibrio tra quattro categorie: Ortofrutta e cereali 28,5% Oli e grassi/Oli di oliva 24,5% Formaggi 20,5% Carni trasformate 18,5% Il rimanente 7,9% concerne altri prodotti quali condimenti, prodotti da forno e carni fresche Si nota una forte concentrazione delle IGP nel comparto ortofrutta e dei cereali che dipende sostanzialmente dalla natura di tali prodotti che, rispetto alle altre tipologie merceologiche, vengono venduti freschi e allo stato naturale, senza subire ulteriori processi di trasformazione (salvo alcuni casi come il Pomodoro San Marzano, le Olive Nocellara del Belice e la Bella della Daunia che invece possiedono il marchio DOP) ALTRI PRODOTTI (103) (48)

22 19 prodotti INTERREGIONALI
Ripartizione per macroaree degli areali di produzione aggiornato al 5 Ottobre 2005 – Fonte: portale del Ministero delle Politiche Agricole 55 prodotti 19 prodotti INTERREGIONALI 25 prodotti 52 prodotti Rispetto alla localizzazione territoriale degli areali di produzione, l’Italia Settentrionale presenta un patrimonio di 55 denominazioni registrate, contro le 52 del Meridione e le 25 del Centro. Le rimanenti 19 denominazioni sono invece interregionali nel senso che l’area di produzione prevista dal disciplinare coinvolge territori (province e comuni) di differenti regioni.

23 Localizzazione territoriale degli areali di produzione aggiornato al 5 Ottobre 2005 – Fonte: portale del Ministero delle Politiche Agricole Oltre alla ripartizione per macroaree, è interessante evidenziare come tali denominazioni (interregionali comprese) si ripartiscano tra le singole regioni. In altri termini, il numero di denominazioni presenti può essere interpretato come un indicatore delle opportunità di scelta produttiva di cui dispongono gli agricoltori e le imprese agroalimentari locali. Nell’ambito del sistema dei prodotti agricoli tutelati, la regione che offre il maggior numero di possibilità è L’Emilia Romagna, con 25 prodotti a marchio registrato a livello comunitario. Seguono, nella graduatoria, il Veneto con 21 prodotti, la Lombardia con 20 e la Toscana con 19. Nelle regioni meridionali, il leader è la Sicilia con 15 marchi registrati, mentre in coda a tale classifica nazionale vi è la Liguria con 2 soli prodotti a denominazione UE.

24 3 2 8 8 15 15 Bacini territoriali di approvvigionamento secondo il disciplinare di produzione per produzioni di salami e prosciutti DOP aggiornato al 5 Ottobre 2005 – Fonte: portale del Ministero delle Politiche Agricole 6 6 5 4 4 6 4 A completamento del quadro relativo alle opportunità produttive offerte dai disciplinari ai sistemi agroalimentari locali, devono inoltre essere considerati i bacini territoriali di approvvigionamento per la produzione di prosciutti e salami a marchio DOP. A parte alcuni salumi a denominazione d’origine protetta il cui disciplinare prevede l’utilizzo di materia prima esclusivamente di provenienza da allevamenti locali, gli altri prosciutti e salumi Dop utilizzano cosce e carni fresche di suini allevati in diverse regioni italiane. Osservando la cartina che evidenzia il ruolo delle diverse regioni italiane nella fornitura di tale materia prima, emerge la rilevanza della Lombardia e dell’Emilia Romagna, i cui allevamenti suinicoli forniscono cosce e carni per la produzione di ben 15 prodotti tutelati. Seguono il Veneto, il Piemonte con la fornitura per 8 prodotti e Lazio e Umbria per 6.

25 Testi di riferimento Links di riferimento
Boccaletti S., Moro D. (1993), “La difesa delle produzioni agroalimentari tradizionali nella CEE”, in “Rivista di politica agraria. Rassegna dell’agricoltura italiana”, fascicolo 2. De Stefano Francesco (a cura di) (2001), “Qualità e valorizzazione nel mercato dei prodotti agroalimentarari tipici”, Edizioni scientifiche italiane, Napoli Magni c., Driussi S. (1998), “L'asimmetria informativa fra produttori e consumatori nel sistema agroalimentare”, in “Rivista di politica agraria. Rassegna dell’agricoltura italiana”, fascicolo 6, volume 16, pagine Mancini M. C. (2003), “Le produzioni alimentari tipiche”, Ed.MUP Monte Università Parma, Parma. Nomisma (2001), “VIII Rapporto Nomisma sull'agricoltura italiana : prodotti tipici e sviluppo locale : il ruolo delle produzioni di qualità nel futuro dell'agricoltura italiana”, Ed. Il Sole 24 ore, Milano. Pilati L., Flaim R. (1994), “Il ruolo dei marchi collettivi in agricoltura”, Rivista di Economia Agraria, n.3 Links di riferimento

26 Letture consigliate Antonelli G. (2000), “Volumi di offerta e marketing. Il caso dei prodotti agro-alimentari tipici”, Economia Agroalimentare, fascicolo 2, volume 5, pagine Carboni R.; Quaglia G.B. (2001), “ I prodotti tipici italiani: problematiche e prospettive di un settore in crescita”, Economia Agroalimentare, fascicolo 2, volume 6, pagine: Pantini D. (2000), “Prodotti tipici e potenzialità socio-economiche”, Agricoltura Nuova, fascicolo 9, volume 42, pagine Turri E., De Rosa M. (2000), “Informazione e consumi alimentari. Il caso delle produzioni tipiche”, Economia Agroalimentare, fascicolo 3, volume 5, pagine


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