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Proclamando il testo biblico nel contesto comunitario di un’assemblea liturgica, la chiesa consegna ai credenti la Scrittura riordinata a partire dalla.

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1 Proclamando il testo biblico nel contesto comunitario di un’assemblea liturgica, la chiesa consegna ai credenti la Scrittura riordinata a partire dalla sua logica di costruzione interna: il mistero di Cristo, il mistero pasquale di Cristo, vero criterio ermeneutico dell’intera Scrittura.

2 La Parola di Dio emergerà allora dalla relazione tra le letture bi­bliche; dalla sinergia tra letture bibliche e contesto liturgico cele­brativo; dall’accostamento delle letture scelte per una data festi­vità; dall’assegnazione di una certa pericope a una festa particolare o a un preciso contesto celebrativo: tutti questi elementi con­corrono a quella «manifestazione della verità» (2Cor4,2) che con­siste nella presenza di Cristo, vero cuore delle Scritture e della liturgia.

3 Si comprende dunque l’apoftegma di Gerolamo secondo cui «l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo»8 e anche che la celebrazione del mistero di Cristo è celebrazione della Scrittura. 8. citato in DV 25 e OLM 5, nota 14

4 L’omelia Momento particolarmente importante nel passaggio del testo a parola vivente è l’omelia. La sua struttura fondamentale è sinte­tizzata nelle parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao: «Oggi si è compiuta questa Scrittura nei vostri orecchi» (Lc 4,21, letteralmente). La Scrittura proclamata nell’oggi a un destinatario preciso: l’assemblea radunata (l’omelia è sempre parola «rivolta a»). «Parte dell’azione liturgica»9, 9. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 52.

5 l’omelia adempie i compiti aposto­lico, catechetico e mistagogico che conducono i fedeli a passare dall’ascolto della Parola alla contemplazione della presenza di Cristo nella storia della salvezza e nell’oggi dell’assemblea.

6 Un’omelia adeguata, salda, Scrittura e sacramento nell’unico atto di culto10 che si pone a servizio del passaggio del Signore in mezzo al suo popolo. La presenza di una vera omelia «significa che si verifica un po’ di pentecoste, poiché degli uomini si comprendono a vicenda, trovano che la parola dell’altro è diretta a lo­ro stessi, sentono la Parola di Dio nella parola dell’uomo» (Joseph Ratzinger). 10. Cfr. idem, n. 56.

7 La comunità dell’ascolto
La comunità radunata per l’ascolto della Parola di Dio forni­sce alla parola scritturistica il contesto ideale nel quale essa può venire attualizzata e vivificata: la comunità convocata dalla pa­rola diviene grembo che, fecondato dallo Spirito, accoglie e rige­nera la parola della Scrittura e diviene luogo per eccellenza di comprensione della Scrittura:

8 «Molte cose nella S. Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (coram fratibus meis positus)... Mi sono reso conto che l’intelligenza mi era concessa per merito loro»11. 11. GREGORIO MAGNO, Moralia, II, n.1 (Gregorio si riferisce al contesto co­munitario liturgico).

9 L’unità della comunità radunata attesta già l’efficacia della Parola che chiama e ha il potere di riunire oggi uomini e donne per l’incontro con il Signore. Collocata nell’al­veo comunitario e liturgico, la Scrittura proclamata, interpretata nell’omelia, che ispira l’eucologia12, rende la comunità ec­clesia nudiens: il primato dell’ascolto rende il gruppo dei credenti ekklesía. 12. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., nn

10 «Nell’ascolto della Parola di Dio si edifica e cresce la chie­sa
«Nell’ascolto della Parola di Dio si edifica e cresce la chie­sa ... Ogni volta che la chiesa, riunita dallo Spirito santo, annunzia e proclama la Parola di Dio, sa di essere il nuovo popolo di Dio, nel quale l’alleanza, sancita negli antichi tempi, diventa piena e completa»13. 13. ORDO LECTIONUM MISSAE, 9

11 ascolto del predicatore,
Il passaggio dal testo alla parola richiede come atteggiamento basilare l’ascolto: ascolto del lettore, ascolto del predicatore, «per non essere vano predicatore della Parola di Dio all’esterno colui che non l’ascolta di dentro»14, ascolto dell’assemblea. 14. AGOSTINO, Sermone 179, 1 (citato in DV 25).

12 L’ascolto deve avvenire nella fede, cioè nella di­sponibilità a realizzare, a vivere la parola: grazie ad esso la parola scritturistica potrà avvenire come evento sempre nuovo e attua­le nei destinatari futuri della Parola di Dio. Ascoltare nella fede significa infatti aprirsi alla convinzione che attraverso il testo bibli­co Dio parla a noi oggi. Il contesto liturgico attua la sacramentalità della Scrittura per cui «nella liturgia Dio parla al suo popolo; Cri­sto annunzia ancora il vangelo»15; «Nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con sovrabbondanza di amore incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro»16. 15. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 33. 16. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 21.

13 Ma soprat­tutto vanno sottolineate, come condizioni che favoriscono il discernimento e l’accoglienza della Parola di Dio contenuta nella Scrittura, la dimensione della contemporaneità (oggi, hodie) e del coinvolgimento diretto del destinatario («per me», «per noi»: cfr. l Cor 10,11: gli eventi dell’esodo (Furono scritti per ammonimento no­stro, di noi per cui sono arrivati gli ultimi tempi»).

14 Regola erme­neutica basilare è l’hodie in Christo et in ecclesia
Regola erme­neutica basilare è l’hodie in Christo et in ecclesia. Questa accoglien­za del libro nell’oggi fa sì che esso non appaia nella liturgia come libro di studio ed i istruzione, come documento letterario del pas­sato, ma come memoriale della storia di salvezza compiuta nell’evento pasquale di Cristo che è appunto ciò che celebra la co­munità riunita.

15 Il coinvolgimento dei membri dell’assemblea at­tiene al carattere di alleanza della liturgia che chiede non solo di sentire rivolte a sé le parole del Signore, ma di metterle in pratica. Ovviamente è perfino inutile ricordare che la parola scritturisti­ca può diventare vivente e vivificante grazie alla sempre maggio­re familiarità dei fedeli (e tanto più del presidente dell’assemblea e di chi ha l’incarico della predicazione) con la Scrittura e la loro sempre più assidua pratica della lectio divina. Scriveva Giovanni Crisostomo:

16 «Ecco ciò che vi chiedo: che un giorno alla settimana o la domenica, ciascuno di voi prenda in mano il passo del van­gelo che vi verrà letto nella liturgia, per leggerlo e rileggerlo in anticipo; che ne facciate in casa uno studio attento e ponderato, notando ciò che vi è di chiaro e di oscuro, ciò che sembra con­traddittorio senza esserlo in realtà. Dovreste venire ad ascoltare la parola sacra soltanto dopo una tale preparazione, diligente e completa. Questo lavoro sarebbe di grande utilità per me: io non troverei grande difficoltà a farvi comprendere il senso di ogni te­sto, essendo la vostra intelligenza già familiarizzata con i testi; voi sareste più chiaroveggenti e perspicaci, non solamente per ascoltare e apprendere meglio, ma anche per insegnare agli altri quanto avrete appreso»17. 17. GIOVANNI CRISOSTOMO, Il vangelo di Giovanni XI, 1.

17 L’ascolto poi della Pa­rola da parte della comunità deve essere orante.
«La lettura della Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché pos­sa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo; poiché “gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini”»18. 18. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 25.

18 La liturgia è il contesto orante per eccellenza che consente questo atteggiamento per cui la parola ascoltata viene recepita «quale veramente è, quale Parola di Dio» (1Ts 2,13), non su Dio, e ad essa si risponde parlando a Dio, non di Dio. Si compie così l’itinerario dalla parola scritta alla presenza: Cristo «è pre­sente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura»19. 19. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 7.

19 Il silenzio Una condizione non molto sottolineata che consente il dispie­garsi dell’efficacia della Parola di Dio e il suo ascolto è il silenzio. «Si osservi, a tempo debito, il sacro silenzio»20; «Il dialogo tra Dio e gli uomini sotto l’azione dello Spirito santo richiede bre­vi momenti di silenzio, adatti all’assemblea in atto, perché la Pa­rola di Dio penetri nei cuori e provochi in essi una risposta orante»21. 20. Idem, n. 30. 21. ORDO, 21.

20 Ogni dialogo è fatto di parole e silenzi: il silenzio è es­senziale al senso del discorso e alla possibilità dell’ascolto, quindi della comunicazione. «Il silenzio nella liturgia non è una cerimo­nia; è piuttosto una sospensione di ogni gesto, parola, rito. Non è però una sosta dal celebrare, quanto invece un entrare nel cuore della celebrazione» (Achille Maria Triacca), del mistero celebrato. «La Parola uscita dal silenzio»22, il Figlio di Dio, abbisogna di silenzio per giungere a compimento nel cuore dell’uomo e portare frutto. 22. IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ad Magnesios 8, 2.

21 Il silenzio liturgico fa ascoltare la «voce dello Spirito» («Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese»: Ap 2, ; 3, ).

22 «Riempirsi di silenzio è aprirsi allo Spirito santo: per sentirlo, ascoltarlo, essergli docili e docibili. Il silenzio di adorazione e di contemplazione è la migliore apertura per accogliere la Parola di Dio. Il silenzio è pri­mo gradino per vivere la Parola del Signore. Il silenzio dopo l’an­nuncio della Parola di Dio è via all’interiorizzazione e all’adegua­zione della Parola di Dio a noi e di noi alla Parola di Dio» (Achille Maria Triacca).

23 Il silenzio scava nel cuore del credente uno spazio per la ricezione dello Spirito che è l’ermeneuta della Parola e del non-detto di Cristo (cfr. Gv12ss.). Il Dio biblico si rivela anche nel­la («voce di un silenzio sottile» (1 Re 19,12) e il silenzio liturgico è spazio di incontro con il linguaggio «ineffabile» (cfr. Rm 8,26) del­lo Spirito.

24 Il silenzio liturgico va perciò compreso non come passività, ma come azione, azione comune: la qualità del silenzio rivela la qualità dell’ascolto dell’assemblea, ma anche la sua stessa qualità di assemblea.

25 Infatti, se la comunità nella liturgia è chiamata a «rendere gloria a Dio con un solo animo e una sola voce» (Rm 15,6), essa è anche chiamata a mostrare il suo essere corpo con un silenzio che sia linguaggio dell’insieme dei membri dell’assemblea, di ciascu­no e di tutti. Lettura della Parola e omelia sono pertanto finalizza­te a costruire il silenzio comune della comunità riunita, cioè il solido fondamento di una comunità sotto­messa all’autorità della Parola di Dio.

26 Una Parola che mette a nudo e che ferisce

27 Che cosa avviene quando la Parola di Dio, scaturita dal testo bi­blico, raggiunge l’ascoltatore? Un’esperienza non infrequen­te che al credente è dato di fare è quella di sentirsi «radiografato», «messo a nudo» o durante la proclamazione liturgica della Parola o durante la lettura di un testo biblico nella lectio divina, oppure all’ascolto di una omelia o di un commento di un testo biblico.

28 La fede e l’ascolto che il credente predispone divengono sorpren­dentemente accoglienza di una Parola che già lo conosce e così lo mette in crisi. È l’esperienza di David che reagisce con veemenza alle parole del profeta Natan, ma poi deve riconoscere che ciò che ha detto il profeta non riguarda altri, ma concerne direttamente e personalmente lui: «Sei tu quell’uomo!» (cfr. 2Sam 12,1-14); è la sor­presa della donna di Samaria di fronte a Gesù che le parla (Gv 4,26): «Mi ha detto tutto quello che ho fatto» (Gv 4,29).

29 Nella Parola di Dio, in ogni pagina della Scrittura che contiene la Parola di Dio, è sempre presente la domanda di Dio rivolta ad Adamo e ad ogni uomo: «Dove sei?» (Gen 3,9), dove ti situi? Domanda che coglie Adamo e ogni uomo che accetti di ascoltarla, nella nudità, nella fragilità: non che questa Parola crei tale nudità, ma la fa emergere, ponendo l’uomo davanti a una Presenza altra (cfr. Gen 3,10).

30 Quan­do si ascolta la Parola di Dio nella convinzione di fede che essa ci ri­guarda (vorrei sottolineare: ci ri-guarda, ci scruta e ci vede nel pro­fondo), che parla a noi e di noi (res nostra agitur), allora noi la accogliamo quale veramente è: non come parola «su» Dio, non co­me parola solamente umana, ma «quale Parola di Dio che esercita la sua efficacia in coloro che credono» (cfr. 1Ts 2,13).

31 Questa efficacia della Parola, che implica anche una sua valen­za giudiziale, è parallela a quella dell’Eucaristia attestata con forza da Paolo. È quanto emerge dal passo di 1Cor 11,17-34 in cui i ver­setti testimoniano la valenza giudiziale dell’Eucaristia:

32 «Ogni volta che mangiate questo pane e bevete al calice, voi an­nunciate la morte del Signore, finché egli venga. Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esa­minassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo» (1 Cor 11,26-32).

33 Come l’Eucaristia è un «annunciare» la presenza del Signore crocifisso, risorto e veniente (1 Cor 11,26; verbo katanghéllein), co­sì annunciare l’Evangelo (1 Cor 9,14; verbo katanghéllein) è un ma­nifestare la presenza del Cristo vivente (cfr. 2 Cor 4,2): «Cristo è pre­sente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella chiesa si legge la sacra Scrittura»23; 23. CONCILIO VATICANO II, Sacrosanctum Concilium, o. c., n. 7.

34 tramite le Scritture «Dio parla al suo popolo, Cristo annuncia ancora l’Evangelo»24; nelle Scritture Dio viene con sovrabbondanza di amore incontro al suo popolo, cerca l’incontro e la relazione con ogni credente25. 24. Idem, n. 33. 25. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 21.

35 Sì, se nell’annuncio della Parola di Dio avviene la phanérosis tés aletheías (2 Cor 4,2), la «manifestazione della verità» che è Cristo, questa diviene anche svelamento della verità che è in ciascuno: ma svelamento è anche spogliazione, abbattimento delle difese, delle corazze, delle maschere, perché emerga la verità interiore.

36 E questo svelarsi a noi della nostra verità intima si accompagna sem­pre a un grande dolore: il dolore della morte delle nostre idealiz­zazioni, dello spezzamento delle immagini di noi che tanto amia­mo ma che null’altro sono se non idoli. Come le folle di Gerusa­lemme, così anche il credente di sempre sente la trafittura del cuo­re all’ascolto della Parola di Dio (cfr. At 2,37).

37 Questo dolore della Parola che mette a nudo, giudica e mette a morte è però tollerabile perché nasce da uno sguardo di amore, esattamente come lo sguardo di Gesù sull’uomo ricco, uno sguar­do che trasmette amore («Gesù, fissato lo sguardo su di lui, lo amò»: Mc 10,21), quell’amore al cui interno può avvenire la rive­lazione della povertà, della mancanza profonda, forse anche della contraddizione che abita quell’uomo («Una cosa ti manca»: Mc 10,21), senza che questa lo schiacci, lo umilii, ma sia invece il pri­mo gradino della sequela dietro a Gesù nella libertà e nella verità («Vieni e seguimi»: Mc 10,21).

38 Sì, la valenza giudiziale della Parola, il fatto che essa tenda a con­vincere di peccato, a svelare all’uomo la debolezza e la povertà che lo abitano, è parte costitutiva del cammino di salvezza che la Pa­rola di Dio indica e fa percorrere all’uomo. È Una Parola che fa emergere la situazione reale dell’uomo davanti a Dio, gli pone un’esigenza che indirizza il suo cammino e concede anche, a chi la accoglie, la forza di mutare la propria condizione.

39 In questo mi pa­re di ravvisare le tre grandi «forme» della Parola di Dio nell’Antico Testamento:
la sapienza, la legge, la profezia.

40 Se la parola sapienzia­le «dice» il reale, se la parola del comando (la legge) «orienta» il reale e se la parola profetica «interviene» nel reale e lo «cambia», sempre que­sta parola cerca relazione con l’uomo e la trova in pienezza nella Parola fatta carne, Gesù Cristo, che è la via (livello della Legge -To­rah), la verità (livello profetico) e la vita (livello sapienziale).

41 Gesù Cristo è la Parola, e in quanto tale è anche il Giudizio, è colui che sa ciò che vi è in ogni uomo (Gv 2,25), che scruta il cuore e i reni, cioè la vita conscia e l’inconscio degli uomini. Egli è la Parola di Dio i cui occhi sono fiammeggianti (Ap 19,12-13).

42 Insomma, la Parola di Dio ci giudica quando e perché da essa noi ci sentiamo posti di fronte alla Presenza del Signore! E questo giudizio tende a suscitare la responsabilità dell’uomo: «Davanti al­la Parola di Dio (lógos toù theoú) non c’è creatura che possa nascondersi, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (cioè, della Parola) e noi ad essa dobbiamo rendere conto (ho lógos)» (Eb 4,13).

43 Alla Parola (di Dio) deve rispondere la nostra parola, cioè l’intera nostra vita con tutte le dimensioni psicologiche e affettive, soma­tiche e spirituali che sono interpellate, toccate, messe in crisi, fe­rite dalla Parola. È l’opera di purificazione che la Parola, abitata dallo Spirito di Dio, opera nell’uomo. È la morte attraverso cui la Parola fa passare il credente per guidarlo alla pienezza della vita.

44 Perché anche l’ascolto della Parola avviene all’interno della logica pasquale, cioè nel quadro di una morte e di una resurrezione. Ac­cogliere la Parola dell’Evangelo comporta sempre questa dinami­ca pasquale. E questo ci dice come sia difficile l’ascolto della Parola di Dio: noi poniamo resistenze a tale ascolto, temiamo il giudi­zio della Parola su di noi, cerchiamo di evitare la purificazione e lo spogliamento prodotti in noi dall’accoglienza del seme della Pa­rola, così come i terreni non profondi, sassosi, o infestati dai rovi (Mc 4, ) non accolgono la semente perché per farlo do­vrebbero lasciarsi dissodare dai sassi, ripulire dai rovi, arare e sarchiare come fa il padrone della vigna nella parabola narrata in Is 5. Ma, per quanto temibile, questo giudizio è vitale. Come è vitale l’evento della morte di croce che si apre alla resurrezione.

45 Chiesa e «trasmissione della fede»

46 Affrontare il problema della trasmissione della fede oggi richiederebbe un’analisi di quella che è stata definita «la pri­ma società post-tradizionale» (Danièle Nervieu-Léger), così come della «cultura dell’amnesia» (Johann Baptist Metz) dominante og­gi in Europa. Fenomeni che pongono problemi gravi alla chiesa che vive di paràdosis e di memoria, in quanto essa si fonda sulla narrazione di generazione in generazione della memoria passionis Jesu Christi.

47 Fenomeni che chiedono ai cristiani di fondare nell’oggi e di rimotivare ogni parola e ogni gesto della fede, non più supportati dall’autorità di una tradizione che li renda eloquenti, credibili e ne favorisca il passaggio tra le generazioni. E più in radice ancora, occorrerebbe affrontare il problema della trasmissibili­tà della fede stessa: se la fede è dono teologale ed è suscitata dallo Spirito, può essere oggetto di trasmissione? Se sì, in che limiti e in che senso?

48 Una comunità generante
L’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) è emblemati­co della possibilità di un annuncio di Cristo fallimentare perché incapace di trasmettere vita. I due di Emmaus annunciano un mor­to (Lc 24,21-24), narrano la loro frustrazione e la loro perdita di speranza.

49 Essi dicono la possibilità, per la chiesa di sempre, di un annuncio che non dà vita, ma tiene chiusi nella morte il Cristo an­nunciato, gli annunciatori e i destinatari dell’annuncio. La do­manda circa il trasmettere la fede, che non è impresa individuali­stica e solitaria, ma evento comunitario, ecclesiale, non deve indi­rizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci (il livello del: come?) e neppure incentrarsi analiticamente e settorialmente sui destinatari, per esempio i giovani (il livello del: a chi?), ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale (il livello del: chi?).

50 Deve divenire una domanda della chiesa su di sé
Deve divenire una domanda della chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma cor­retta, perché pone in causa la chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere.

51 E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi, o, se vogliamo dirlo con le parole dell’allora Card. Ratzinger, «l’esito catastrofico della catechesi nei tempi moderni», è un problema ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della chiesa di configurarsi come rea­le comunità, come vera fraternità, come corpo e non come mac­china o azienda.

52 «Ecclesia mater»: la chiesa come luogo di esperienza di amore
Chiediamoci: che senso ha, se ne ha ancora, l’espressione ama­re la chiesa? Si può amare una chiesa che consenta al credente di fare esperienza di amore, di gratuita, di perdono, di misericordia, di tutto ciò che sta nell’ampio spazio dell’amore (e dunque anche della sofferenza inerente all’amare). L’amore, infatti, è ciò che è ve­ramente generante e vitale.

53 E che rende possibile la vocazione ma­terna della chiesa: generare alla fede e nutrire la fede dei suoi figli mediante: la predicazione, la liturgia, il Battesimo, i sacramenti, l’educazione, la testimonianza.

54 Una chiesa che trasmette la fede è una chiesa capace di maternità
Una chiesa che trasmette la fede è una chiesa capace di maternità. Che, a mio modo di vedere, signi­fica anzitutto capace di umanità. Del resto, l’atto di credere, di «fare affidamento su», è anzitutto un atto umano, umanissimo. Chia­mato ad avvenire in un contesto umano e umanizzato. Di più.

55 La fe­de credibile è quella che raggiunge l’umano delle persone e che sa toccare il tragico che le persone vivono. Che compie cioè un atto di accoglienza e assunzione della persona, prima di essere eventual­mente accolta e assunta essa stessa dalla persona.

56 Gesù Cristo: centro dell’annuncio
Al cuore dell’annuncio vi è Gesù Cristo creduto e testimoniato. Ge­sù con la sua pratica di umanità, con la declinazione particolare che egli ha dato all’umano. Trasmettere la fede è essenzialmente trasmettere le Scritture, e massimamente i vangeli26 che consentono al credente di entrare nella conoscenza dinamica e coinvolgente di Gesù, il Signore. 26. CONCILIO VATICANO II, Dei Verbum, o. c., n. 25.

57 Ora, secondo i vangeli, Gesù su­scita fede, genera alla fede, sa riconoscere la fede, e questo sempre all’interno di incontri in cui egli mette in gioco la sua santità ospi­tale. Gesù «evangelizza» attraverso incontri umanissimi in cui egli crea uno spazio di libertà attorno a sé consentendo a chi egli in­contra di emergere come soggetto e di scoprire la propria dignità e identità.

58 Cogliamo nell’arte di incontrare le persone che Gesù vi­ve e che i vangeli narrano, un magistero circa il clima relazionale richiesto per la trasmissione della fede. Che è anch’essa operazio­ne umanissima e relazionale.

59 Gesù personalizza gli incontri adattandosi all’altro nella sua situazione particolare, non giudica mai la persona che ha di fronte (si pensi all’adultera di Gv 8,1-1 1 o alla prostituta di Lc 7,36-50 che Gesù vede come donna capace di amore là dove i suoi commensa­li vedono solo una peccatrice), accoglie il linguaggio che l’altro sa mettere in atto (la prostituta di Lc 7,36-50 ha solo linguaggio cor­poreo, non dice una parola), accetta di mettersi in discussione, di mutare parere riconoscendo la giustizia e la fede dell’altra perso­na (Mt 15,21-28), ha di mira la libertà dell’altro, non tende a lega­re a sé coloro che guarisce o che giungono alla fede grazie a lui, ma li restituisce a se stessi (Mc 5,1-20).

60 Incontrare Gesù significa:
conoscere la valorizzazione del proprio nome e del proprio volto, della propria unicità; entrare nel compito e nella responsabilità di umanizzarsi; cogliere l’essenzialità del gratuito; entrare nell’avventura e nell’ascesi della libertà.

61 Questi elementi sono costituitivi dell’incontro che anche oggi può condurre una persona alla fede in Gesù. Condizione necessa­ria è che questa persona incontri un’umanità fidabile. In quest’ope­ra di trasmissione la paternità spirituale, proprio per il carattere relazionale umanissimo che la contraddistingue, può rivestire un ruolo importante, particolarmente nei confronti delle giovani ge­nerazioni.


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