STORIA STORIA Costanza Teodosia Potenza
L’alimentazione nell’Ottocento Nelle campagne italiane della prima metà del XIX secolo le condizioni di vita delle popolazioni rurali e urbane erano disperate. L’alimentazione era costituita prevalentemente da " Pane di granoturco, minestre nelle quali si ammanniscono le materie più scadenti come polenta, patate, castagne, legumi che costituiscono la quasi totalità del vitto dal quale è pressoché esclusa la carne se non da cortile una volta ogni tanto“.
Nella prima metà dell'Ottocento era comune l'uso di un unico piatto, generalmente in legno di castagno, sul quale il cibo era scodellato e da cui ciascun commensale prendeva la sua razione, la portava verso il bordo e la consumava.
L’ Italia e i paesi più evoluti del Mediterraneo, al contrario delle altre popolazioni europee, erano terre molto popolate e tali popolazioni erano orientate verso un’attività agricola molto diversa. L’allevamento, che richiedeva grandi pascoli, non poteva essere praticato, e pertanto quelle genti si orientarono verso la coltivazione dei cereali. Una medesima area di terreno, infatti, produceva una quantità di cereali notevolmente superiore alla quantità di carne che si poteva ottenere dalla caccia o dall’allevamento, che arricchiva la tavola assai di rado e solo in occasione di feste o in caso di malattia.
L'alimentazione era profondamente diversa a seconda dei gruppi sociali: vi era un notevole abisso tra i regimi alimentari dei ceti aristocratici o borghesi e quelli dei ceti popolari. Nelle campagne come nelle città il cibo degli strati popolari era scarso e poco vario, e questo produceva una condizione diffusa di sottoalimentazione, con carenze vitaminiche e proteiche.
Nell'Italia del Nord, tra nebbie, neve e freddo l’alimentazione si basava essenzialmente sul mais che entrava con segale e miglio nella composizione del pane e con il quale si faceva la polenta. La frutta era costituita principalmente da mele, pere e frutta minore, nonché da uva, trasformata in vino. Nelle montagne alpine o appenniniche i contadini mangiavano pane di farina di castagne e polenta di castagne o di fave.
Nell'Italia centrale e meridionale il pane, spesso di cereali inferiori (orzo, segale, avena, melica, miglio), costituiva l'alimento principale, accanto a qualche minestra con il lardo e a un po' di verdura. Al sud e nelle isole, il clima più mite consentiva una cucina a base di olio, pomodoro e tante verdure caratteristiche (broccoli, cime etc.), pastasciutta nonché pesce e agrumi. Oggi tale cucina è più nota come " cucina mediterranea", ma all'epoca non si sapeva e non si conoscevano i suoi benefici.
L’ alimentazione della classe contadina Nell’ alimentazione dei contadini, la carne non era presente per via degli alti costi, essa era riservata solo alle grandi occasioni. In Toscana la carne veniva usata come condimento nelle zuppe di fagioli e cavoli oppure di pasta e ceci, mentre la carne di manzo bollito era considerata una prelibatezza. La carne da brodo lessata proveniva dalle vaccine più vecchie ed era naturalmente indigeribile. Gli animali da fattoria erano allevati principalmente per il lavoro, poi per il latte e la riproduzione di conseguenza, solo in "avanzatissima" età venivano abbattuti o cadevano da soli. La quantità giornaliera di carne, alta anche secondo gli standard odierni, non deve quindi trarre in inganno. Si trattava in genere di tagli di scarsa qualità e valore nutritivo, ovvero frattaglia.
Il vino, da sempre uno dei prodotti italiani più esportati nel resto d'Europa, era accessibile a pochi. I contadini ne bevevano poco e di qualità scadente, ottenuto dalle vinacce, poiché quello di qualità era destinato alla vendita nelle città o all'estero. In città il vino era presente quasi quotidianamente sulle tavole, mentre nelle campagne, se si voleva bere vino di qualità, bisognava andare nelle osterie. Questi luoghi avevano l'importante funzione di essere i punti di ritrovo e di aggregazione sociale e per questo rappresentavano l'unico vero svago della moltitudine di contadini che le frequentava assiduamente.
Il pomodoro non era ancora molto diffuso. Si usava grasso, olio e latticini. Soprattutto per le popolazioni centro-meridionali, i latticini erano un alimento pregiato a causa dell’alto costo. Il consumo della pasta era ancora limitato ai centri cittadini più grandi, dove c'era, generalmente, un tenore di vita più alto. Il riso era consumato solo nelle zone di coltivazione ma contribuiva alla diffusione dello scorbuto, poiché intorno alle risaie era quasi impossibile coltivare verdura o alberi da frutto, a causa del terreno acquitrinoso.
Le patate, alimento molto nutriente alla base dell'alimentazione di molte popolazioni europee, in Italia non erano molto considerate, perché suscitarono nei contadini molta diffidenza, che, unita ai pessimi raccolti di quei primi anni di raccolto, ne determinarono l'esclusione quasi completa dalla dieta dei nostri contadini. Le patate, infatti, furono importate in Spagna alla fine del '500 e si diffusero nell'arco del secolo successivo in tutta l'Europa, ma arrivarono in Italia solo agli inizi dell'800 e solo negli anni '40, dopo un secolo di indifferenza, entrarono a far parte in modo stabile dell'alimentazione italiana.
L’ alimentazione della classe operaia Gli operai delle città avevano un’alimentazione più varia rispetto a quella dei contadini: era abbondante l’uso del pane di frumento e, al nord, anche l’uso della polenta di mais e del riso, mentre al sud si consumava molta pasta. La carne compariva in quantità moderata: si preferiva quella ovina e le viscere dei bovini. Non mancavano formaggio e latte, il resto delle proteine era assunto mangiando legumi. Il vino era presente quasi quotidianamente sulle tavole degli operai.
L'insufficienza alimentare non era estranea agli alti tassi di mortalità complessiva e di mortalità infantile in particolare (subito dopo l'Unità morivano nel primo anno di età circa 220 bambini su mille). Numerose erano le malattie da malnutrizione: per esempio il mais, introdotto nel corso del '700 nell'alimentazione popolare dell'Italia settentrionale, tamponò gli effetti catastrofici di carestie quali quelle del 1801 e del 1817, ma il suo consumo pressoché esclusivo portò alla diffusione di una terribile forma di avitaminosi, la pellagra, che conduceva alla follia e alla morte.
L’ alimentazione della classe agiata Nell’Ottocento si completa la diffusione, almeno per le classi agiate, delle buone maniere a tavola, con l’affermarsi definitivo delle forchette, del piatto piano (invece della fetta di pane o del tagliere di legno) e di posate e bicchieri individuali, con il divieto di mettere le dita nei piatti comuni, con evidenti vantaggi igienici. I cereali comunque, anche in questo secolo, occuparono un ruolo assolutamente preponderante, perpetuandosi la tendenza alla malnutrizione delle popolazioni.
Nel loro regime alimentare rientravano pranzi abbondanti costituiti da numerose portate che recavano danni, spesso irreparabili all’organismo. Si cibavano principalmente di carne, pesce (il caviale veniva usato solo in situazioni particolari), pasta, pane e latticini.
Inoltre si cibavano di frutta, verdura e spezie. Erano sempre presenti sulle loro tavole vino, liquore e zucchero.
Agli inizi dell’Ottocento, grazie all’industrializzazione, si assiste alla diffusione del cioccolato su larga scala, anche presso le classi meno abbienti. Ciò fu possibile quando il cioccolato, preparato industrialmente sotto forma di tavolette, non si poteva solo bere ma anche mangiare.
L’industrializzazione permise di introdurre sul mercato differenti varianti di cioccolato: nel 1828 si inizia a produrre il cacao in polvere nell’esposizione di Londra del 1851 vennero presentati per la prima volta bonbon, creme al cioccolato, canditi o caramelle rivestite da cacao nel 1876 Daniel Peter di Vevey sul lago di Ginevra reinventa il cioccolato al latte nel 1879 Rodolphe Lindt inventò il cioccolato “che si scioglie in bocca” nel 1875 fu lanciato sul mercato il cioccolato al latte nel 1879 fu inventato il concaggio, che consiste nel mantenere a lungo rimescolato il cioccolato fuso per assicurarsi una miscelazione omogenea
Il mito del cioccolatino Sulla nascita dei cioccolatini si fanno diverse congetture. La più suggestiva sostiene che il cioccolatino sia la conseguenza di un incidente avvenuto nella cucina di un Duca: una casseruola piena di zucchero caramellato si rovesciò accidentalmente sopra a delle mandorle accendendo l’immaginazione del capocuoco, che ideò così un dolce dalle dimensioni di un boccone e ricoperto di cioccolata.
Torino e il gianduiotto La patria dei primi cioccolatini sembra comunque essere Torino (fine 1700), come piemontese è anche l’invenzione dei gianduiotti. Nati nel 1865 e presentati al pubblico in occasione del carnevale dalla maschera torinese Gianduia, da cui presero il nome, l’impasto è composto da nocciole tostate e macinate, cacao, burro di cacao e zucchero.
Questo squisito impasto fu l’esito del blocco commerciale voluto da Napoleone per indebolire gli inglesi: il cacao, il cui costo era divenuto altissimo, venne allora diluito con le nocciole. Veniva utilizzato solo il 20% di cacao : la polvere di cacao venne sostituita con la farina di nocciole.
Alla fine dell’800 si fa risalire ancora a Torino, la ricetta del cremino, composto da tre strati di cui due, esterni di cioccolata gianduia e quello interno di cioccolata al caffè, o nocciola o limone.