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Johann Gottlieb Fichte

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Presentazione sul tema: "Johann Gottlieb Fichte"— Transcript della presentazione:

1 Johann Gottlieb Fichte
(Rammenau, 19 maggio 1762 – Berlino, 27 gennaio 1814) è stato un filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Kant e iniziatore dell'idealismo tedesco. Biografia L'infanzia e i primi studi Johann Gottlieb Fichte nacque nel 1762 a Rammenau in Sassonia da genitori molto poveri. Durante la sua infanzia fu costretto a lavorare come guardiano d'oche per aiutare la sua famiglia. Fu grazie al sostegno del barone von Miltitz che Fichte poté incominciare gli studi. Si narra che il barone fosse rimasto stupefatto nell'udire il ragazzo ripetere a memoria un sermone (che egli non aveva potuto udire) e, comprese le grandi potenzialità che aveva, decise di aiutarlo. Dopo aver frequentato il ginnasio, nel 1780 si iscrisse alla facoltà di teologia di Jena, proseguendo in seguito gli studi a Lipsia. In questi anni gli aiuti del barone si fecero sempre più radi e Fichte dovette attraversare un periodo durissimo, che lo costrinse a lavorare come precettore per non cadere nella miseria. Si trasferì poi a Zurigo dove conobbe Johanna Rahn, che divenne in seguito sua moglie. L'inizio della formazione filosofica: Kant [modifica] Nel 1790 uno studente gli chiese lezioni su Kant: poiché Fichte non conosceva la Critica della ragion pura fu costretto a leggerla. Fu per lui una vera rivelazione, egli scrisse a proposito che questa scoperta lo rese ricchissimo interiormente, tanto da sentirsi "uno degli uomini più felici del mondo". Fichte, dopo aver scritto un'opera intitolata Saggio di una critica di ogni rivelazione, in cui esponeva abilmente i principi della dottrina kantiana, si recò a Königsberg per farla leggere a Kant stesso. Quando un editore pubblicò il lavoro nel 1792, per intercessione di Kant, non vi stampò il nome dell'autore: questo fece sì che lo scritto fosse scambiato per un lavoro di Kant stesso. Quando Kant rivelò l'identità dell'autore, Fichte divenne immediatamente celebre e fu chiamato all'Università di Jena. Intanto nel 1791 a Danzica Fichte stava stendendo una difesa degli editti del governo prussiano che limitavano la libertà di stampa e introducevano la censura: nel mentre gli furono però negati i permessi per la pubblicazione del Saggio di una critica di ogni rivelazione. L'indignazione per questa censura fece mutare la posizione di Fichte di fronte agli editti sulla riduzione della libertà di stampa, tanto che nel 1793 pubblicò, anonimamente, la Rivendicazione della libertà di pensiero. Il periodo a Jena Fichte fu nominato professore nel 1794 e terrà la cattedra fino al 1798, quando, in seguito alle sue dimissioni, il suo posto sarà preso da un giovanissimo Schelling, che di lui era stato studente e poi, grazie all'intercessione di Goethe, coadiutore. Durante il soggiorno a Jena Fichte scrisse la maggior parte delle opere più importanti di esposizione del suo pensiero, tra cui i Fondamenti dell'intera dottrina della scienza, la cui prima edizione apparve nel 1794, ma alla quale ne seguiranno altre, rivedute e ampliate. Pur avendo fatto proprio il pensiero del filosofo di Königsberg, Fichte criticò la presunzione kantiana di un essere posto irrimediabilmente fuori dal soggetto. Tale esistenza sarebbe un limite non superabile per l'attività dello spirito e dunque per la sua libertà. Per Fichte la posizione di Kant era ancora dogmatica e pertanto materialista e fatalista, perché in lui il soggetto è passivo e assiste da spettatore agli eventi che lo determinano. L'idealismo di Fichte vuole celebrare invece la libertà e l'indipendenza del soggetto rispetto a ciò che si trova al di fuori di lui perché l'io «si fa da se stesso». Con questo Fichte vuole affermare ancora una volta come lo spirito non è prodotto né condizionato dall'essere. La sua filosofia dovrà descrivere le varie tappe con cui l'essere viene prodotto come momento del pensiero. Le altre opere di questo periodo sono i Discorsi sulla missione del dotto, breve saggio del 1794, i Fondamenti del diritto naturale (1796), in cui Fichte prende posizione a favore del giusnaturalismo, e il Sistema della dottrina morale (1798). La polemica sull'ateismo Nel 1799 scoppiò la cosiddetta «polemica sull'ateismo» (Atheismusstreit): nel 1798 Fichte aveva pubblicato sul Giornale filosofico un articolo intitolato Sul fondamento della nostra credenza nel governo divino del mondo: in esso veniva sostenuta la tesi per la quale Dio coincideva con l'ordine morale del mondo, apparendo soltanto come un "dover essere". Nello stesso articolo, inoltre, il direttore del giornale Forberg, suo discepolo, aggiungeva che era possibile non credere in Dio pur essendo religiosi, purché si credesse nel suddetto ordine morale. In riposta all'articolo comparve un libello anonimo che accusava Fichte di ateismo, montando una campagna mirante in realtà a screditarlo. Poco tempo dopo intervenne lo stesso governo prussiano, proibendo la stampa del giornale; per di più esso adoperò pressioni sul duca di Weimar affinché fossero presi dei severi provvedimenti nei confronti di Fichte e di Forberg, minacciando in caso contrario di proibire ai cittadini prussiani di iscriversi all'Università di Jena. Il governo di Weimar, sia per timore di far perdere prestigio ad uno dei suoi migliori centri universitari, sia per il contesto storico che vedeva la Germania dominata dall'influenza della Prussia, chiese quindi al Senato Accademico dell'università di formulare un rimprovero ufficiale nei confronti dei due intellettuali. A quel punto però Fichte rispose con fermezza, scrivendo in data 22 marzo 1799 una lettera privata ad un membro del governo nella quale minacciava, in caso di rimprovero, di lasciare la cattedra insieme a molti suoi colleghi. Lanciò inoltre un Appello al pubblico e raccolse l'appoggio di molti studenti tramite una petizione. Il governo di Jena allora, venuto a conoscenza della lettera di Fichte, la prese come pretesto per "accettare" le sue dimissioni, che il filosofo rassegnò poco tempo dopo.[1] La richiesta di dimissioni di Fichte era stata caldeggiata anche da Goethe, che godeva di grande influenza nell'ambiente universitario di Jena: fu quest'ultimo a proporre, con successo, che la cattedra rimasta vacante fosse data a Friedrich Schelling (già nominato coadiutore di Fichte proprio con l'appoggio di Goethe). Si dice inoltre che in occasione di questo avvicendamento Goethe abbia detto: Tomba di Johann G. Fichte al Dorotheenstädtischer Friedhof « Per un astro che tramonta un altro ne sorge. » Periodo berlinese Fichte si trasferì allora a Berlino dove visse dando lezioni private e frequentò diversi intellettuali romantici, tra i quali Schlegel, Schleiermacher, Tieck e Novalis (grande estimatore dell'opera di Fichte). Nel 1805 tornò all'insegnamento universitario quando gli fu offerta una cattedra all'università di Erlangen. Nel 1806 Fichte era a Königsberg quando Napoleone invase la città: tornato a Berlino scrisse i Discorsi alla nazione tedesca ( ), in cui cercava di risvegliare l'anima del popolo tedesco contro la dominazione napoleonica, affermando il primato del popolo tedesco. Questa pubblicazione lo rese nuovamente celebre, favorendo anche la sua nomina, da parte del Re, a professore ordinario dell'Università di Berlino, di cui fu in seguito eletto rettore. Morì nel 1814 di colera, contagiato dalla moglie, la quale aveva contratto la malattia curando i soldati negli ospedali militari. La Dottrina della scienza Fichte si propone come Reinhold di dare coerenza e rigore al criticismo kantiano riconducendolo ad un principio fondamentale. Solo così sarà possibile costruire un sistema filosofico che contenga le basi di ogni sapere, cioè della scienza. Un tale sistema sarà appunto Dottrina della scienza, ovvero indagine sulle condizioni che rendono possibile il sapere. L'Idealismo critico Il principio della scienza va ricercato restando nell'ambito del criticismo, cioè partendo dalla coscienza trascendentale. Questo principio non può essere la rappresentazione di Reinhold, perché questa si presenta come un fatto privo di spiegazione. Ogni fatto va invece ricondotto al motivo, alla ragione del suo costituirsi, ovvero all'atto che lo pone. La filosofia per Fichte è dunque muovere dal condizionato, cioè dal contenuto della coscienza, per ricercare le condizioni che la rendono possibile. All'origine della coscienza Fichte pone l'autointuizione dell'Io, che egli assimila all'io penso e all'intuizione della legge morale di Kant. Essa deve essere un atto assolutamente incondizionato, perché se fosse condizionato non sarebbe il principio primo: è quindi un fondamento che si pone da sé; ed è un atto perché il suo essere è essenzialmente un porsi: esso è dunque al contempo un conoscersi e un agire. Il concetto di Io corrisponde al momento in cui pensante e pensato sono presenti al pensiero come la medesima realtà. Pertanto soggetto e oggetto vengono a coincidere e non hanno più una connotazione che li differenzia: è questa l'essenza dell'Idealismo di Fichte. Seguendo questa definizione, e considerando che l'esperienza viene a coincidere con il pensiero assoluto, giungiamo alla conclusione che tutta la realtà finisce per risolversi nell'Io assoluto. Anche le categorie assumono un ruolo diverso: mentre per Kant esse avevano lo scopo di unificare il molteplice, per Fichte hanno lo scopo inverso di moltiplicare l'Io nella sua unicità. Dal reciproco rapportarsi di soggetto e oggetto, Fichte farà così scaturire tre principi. 1) L'Io pone se stesso Nella filosofia aristotelica il principio su cui si fondava la scienza era il principio di non contraddizione: A ≠ non A (A è diverso da non A). La filosofia moderna e la stessa filosofia kantiana si fonda invece sul principio di identità: A = A (A è uguale ad A). Fichte afferma che quest'ultimo deriva a sua volta da un principio più generale: l'Io. Se non ci fosse l'Io non sarebbe possibile, infatti, affermare i primi due principi. È l'io che pone il legame logico A = A, e che quindi pone lo stesso A, ma l'Io non è posto da nessun altro se non da se medesimo, cioè si autopone: Io = Io. Quindi, l'Io essendo condizione di se medesimo si auto-crea. La concezione comune ci farebbe pensare che prima vengono le cose e successivamente le funzioni compiute dalle stesse, Fichte è categorico nel rovesciare questa credenza. Ciò che viene comunemente chiamato cosa non è altro che un risultato di un'attività. Nella metafisica classica si diceva: operari sequitur esse (l'azione consegue l'essere), Fichte ora afferma: esse sequitur operari (l'essere consegue l'azione). L'io pertanto viene ad essere in quanto si autopone: l'essenza dell'io consiste proprio nell'essere autocosciente. L'Io Fichtiano è, quindi, l'intuizione intellettuale che Kant riteneva impossibile all'uomo poiché coincidente con l'intuizione di una mente creatrice. L'Io non è l'io e l'intelligenza del singolo uomo empirico, ma l'Io assoluto da cui tutto deriva. Per questo motivo Fichte introdurrà altri due principi che dimostrano la molteplicità degli Io individuali e l'inesistenza di un mondo esterno. 2) L'Io oppone a sé un non-io Siccome l'Io non basta a spiegare la coscienza, che si costituisce come tale solo in rapporto ad oggetti di cui è appunto coscienza, Fichte giunge ad una seconda formulazione (antitesi): "L'Io pone nell'Io il non-Io", secondo il principio spinoziano omnis determinatio est negatio. Il non-Io rappresenta tutto ciò che è opposto all'Io ed è diverso da questo. Poiché ogni conoscenza deve essere conoscenza di qualcosa di esterno deve esistere il non-io. Che l'oggetto debba essere posto dall'Io dipende dal fatto che esso non si può giustificare da sé, come già avevano mostrato tutte le polemiche post-kantiane sulla cosa in sé: non si può infatti pensare ad un oggetto se non per un soggetto. Presupporre l'oggetto come assolutamente indipendente dal soggetto significa cadere nel dogmatismo e togliersi la possibilità di spiegare la conoscenza, la quale senza un riferimento logico all'oggetto diverrebbe vacua e inconsistente. Il non-io si spiega, tra l'altro, perché l'Io non si pone come qualcosa di statico, ma si pone come ponente. Il "porsi come colui che pone" implica necessariamente la posizione di qualcos'altro e quindi lo scaturirsi di un non-io. Il non-io è all'interno dell'Io originario poiché all'infuori dell'Io non può esistere nulla. Ma il non-io, a sua volta, limita l'io posto nel primo principio, che diventa così limitato e a sua volta limitante, in quanto limita anch'esso il non-io. 3) L'Io oppone in sé a un io limitato un non-io limitato Il terzo principio rappresenta così il momento della sintesi. L'Io assoluto è costretto a porre un "Io" empirico e divisibile da contrapporre al non-Io anch'esso divisibile. Si giunge pertanto alla formulazione: "L'Io oppone, nell'Io, al non-io divisibile un Io divisibile". L'opposizione del non-io all'Io non avviene in maniera netta, ma essi si limitano a vicenda, cosicché si determinano. Il secondo principio si limitava a porre l'esigenza che il non-io fosse ricondotto totalmente alla ragione, perdendo la sua estraneità di dato ovvero la sua irrazionalità, ma col terzo principio l'Io prende coscienza di essere limitato dal non-io. La reciproca limitazione dell'io e del non-io spiega sia i meccanismi dell'attività conoscitiva sia di quella morale: * L'Io determinato dal non-io fonda l'aspetto dell'attività conoscitiva. * Il non-io determinato dall'Io fonda, invece, l'attività pratica. Mentre infatti nella conoscenza l'oggetto precede il soggetto, nell'azione sarà il soggetto a precedere e determinare l'oggetto, il quale sorge per farsi strumento della sua libertà. Spiegazione dell'attività conoscitiva Per Fichte l'immaginazione produttiva di Kant non è altro che la creazione inconscia da parte dell'Io degli oggetti, che Kant chiamava noumeno o cosa in sé. Essa è quindi quell'attività che delimita l'Io e che crea il contenuto, la materia necessaria alla conoscenza. Proprio perché quest'attività è inconscia la materia ci appare come altro da noi (non ci identifichiamo in essa). In tal modo, Fichte riesce a rendere ragione del punto di vista del realismo, che non può essere considerato erroneo, essendo giustificato dall'azione necessaria e inconscia della stessa immaginazione produttiva. La superiorità dell'idealismo sul realismo consiste però nel fatto che il primo riesce a rendere ragione del punto di vista realistico, mentre il secondo, che presume di essere più vicino al senso comune, non sa spiegarlo. Fichte descrive quindi i passaggi con cui la coscienza, successivamente, si riappropria del materiale prodotto dall'immaginazione produttiva: ciò avviene attraverso la sensazione, l'intuizione sensibile, l'intelletto, e infine il giudizio. In questo processo, l'Io passa da un minimo di passività (la semplice sensazione), ad un massimo di attività (l'autocoscienza), scoprendo così che è l'Io ad essere attivo sul non-io, e non viceversa. Attraverso l'autocoscienza è possibile avvicinarsi sempre di più all'autocoscienza pura, cioè alla coscienza dell'Io stesso. L'idealismo si mostra superiore al realismo anche sul piano etico: il primo infatti comporta la suprema attività e libertà dell'Io, mentre il secondo comporta la passività dell'Io di fronte agli oggetti. Da qui si può iniziare a comprendere come l'idealismo per Fichte sia essenzialmente una scelta pratica. Esso non può essere abbracciato per ragioni puramente teoretiche; l'idealismo infatti può dimostrare la propria superiorità solo scegliendolo. Viceversa chi non comprende e non afferma la propria libertà nell'attività pratica, resterà inevitabilmente fermo al realismo. Alla luce di ciò si comprende meglio il significato della Dottrina della scienza: porre l'Io come principio primo non fa cogliere l'Assoluto stesso, così da ricavarne ogni altra realtà. Se così fosse, il pensiero filosofico sarebbe creatore, poiché coinciderebbe con l'atto creativo dell'assoluto stesso, e così svanirebbe la finitezza dell'uomo. L'Io invece è posto dal filosofo con un atto di affermazione della libertà che si limita a ricostruire le condizioni di possibilità della coscienza. In questo senso la filosofia è ben distinta dalla vita: "Vivere è non-filosofare" e "Filosofare è non-vivere". La filosofia, cioè, rispetto all'esperienza si pone come pensiero puramente negativo: si distacca dalla vita per poterla spiegare, ma proprio per questo non può surrogarla. In tal modo, sia pure diversamente da Kant, l'idealismo fichtiano salvaguardia la finitezza dell'uomo nel suo rapportarsi al dato empirico. Spiegazione dell'attività morale La Dottrina della Scienza lasciava aperto un problema: se l'Io è attività incondizionata, restava da capire perché esso si limitasse, e opponesse a se stesso un non-io. Questo problema viene risolto da Fichte rifacendosi al primo principio (l'Io pone se stesso): l'Io, cioè, poiché è un continuo porre il proprio essere, non è una realtà statica, ma dinamica. Esplicandosi in una tale attività, occorre che gli sorga contro un'opposizione, un non-io, perché un'attività è tale solo se consiste nello sforzo di superamento di un limite. L'oggetto, cioè il non-io, si presenta così all'uomo, nell'attività pratica, come l'ostacolo da superare. Il non-io diventa il momento necessario per la realizzazione della libertà dell'Io. In campo pratico l'io si sforza di superare questo ostacolo spostando il limite tra io e non io sempre più in là. Quindi in campo pratico l'io è infinito per il suo sforzo di esserlo. Come l'io potrà affermarsi solo in qualità di superatore degli ostacoli, allo stesso modo l'uomo deve porsi da solo dei limiti e tendere alla perfezione, attraverso il superamento degli stessi per affermarsi realmente come individuo libero. La frase che raccoglie questo pensiero è: Essere liberi è cosa da nulla: divenirlo è cosa celeste. In questo modo, sia pure diversamente da Kant, anche Fichte afferma il primato della ragion pratica, tanto che la sua filosofia può essere chiamata idealismo etico. Egli è il filosofo della borghesia nascente, che trasforma il mondo con il lavoro. Questa trasformazione non è altro che perfezionamento dell'Io stesso. È un processo di arricchimento, senza il non-Io non sarebbe infatti possibile la storia. La legge di questa attività è la kantiana legge morale del dovere che impone alla libera volontà dell'uomo di realizzare la ragione nel mondo. L'etica fichtiana si basa su un progressivo ricongiungimento all'infinito con l'Io originario, superando in un certo modo la propria individualità. Il raggiungimento della perfezione morale è un riconoscersi nell'assoluto, quando l'"Io pone se stesso" non sarà più una semplice esigenza, ma realtà. L'io assoluto, tuttavia, non è ancora per noi una realtà, bensì un compito, un ideale, che l'azione morale esige, ma che non può essere dimostrato. L'Assoluto è visto così da Fichte come esigenza fondamentale che costituisce l'essenza dell'Io, realizzabile solo in una dimensione tendente all'infinito. Quella di Fichte è così una filosofia dell'infinito, nel quale consiste la sua componente propriamente romantica. Da ciò tuttavia deriva che l'Assoluto, cioè Dio, non può più essere pensato come un essere in sé compiuto, ma solo come ideale, ovvero l'ideale dell'ordinamento morale del mondo. Fu questa l'origine dell'accusa di ateismo che costrinse Fichte a dare le dimissioni dalla cattedra di Jena. Fichte rispose alle accuse dicendo di non voler distruggere la religione, ma solo di individuare in essa il contenuto essenziale, cioè la fede nella realizzabilità di un mondo morale. L'esito religioso dell'idealismo fichtiano Le polemiche sull'ateismo in aggiunta ad alcuni dissapori con Schelling, che lo stava via via offuscando e gli contestava inoltre un eccessivo soggettivismo, contribuirono a una svolta del pensiero di Fichte in una direzione più ontologica e religiosa, senza che con questo egli abbandonasse il suo precedente punto di vista. Già nella Missione dell'uomo (del 1800) egli metteva in rilievo come nessun sapere possa fondare e provare se stesso: ogni sapere presuppone qualcosa di più elevato come sua causa; solo la fede può fondare la sua validità, mettendolo al riparo dalle derive di un idealismo relativista quanto irrazionale. Nella Dottrina della Scienza del 1804 Fichte sostiene così che l'Io assoluto è il fondamento del nostro sapere (e del nostro agire), ma è un Assoluto in sé e non un semplice dover essere. L'assoluto è per noi inaccessibile, e la filosofia non muove dall'assoluto ma solo dal sapere assoluto: l'assoluto cioè costituisce la fonte del sapere e la sua unità più profonda, ma esso è anche il limite del sapere, il punto in cui questo si annichila. La ragione non può mai uscire da se stessa per comprendere la sua origine, che rimane quindi non comprensibile. Dice Fichte: «Il fondamento della verità non risiede nella coscienza, ma assolutamente nella verità stessa. La coscienza è soltanto il fenomeno esterno della verità»; in altre parole, essa è solo emanazione della verità, un indicatore di questa, non la verità stessa. Nell'Introduzione alla Vita beata, Fichte interpreta il suo idealismo alla luce del Vangelo di Giovanni: il Logos di cui parla l'evangelista, cioè il Sapere, la Coscienza divina, è l'immediata e diretta espressione di Dio, che è l'assoluto. Il Logos è intermediario tra Dio e il mondo, e l'uomo non può unirsi a Dio Padre direttamente, ma solo tramite il Logos, il mediatore. Per giungere a questa unione la ragione deve riconoscersi per quello che è, cioè semplice esteriorizzazione dell'assoluto, fenomeno espressione non di sè, e deve quindi cancellarsi negando se stessa. Grazie a questo processo di auto-umiliazione è possibile elevarsi e giungere alla visione estatica dell'Uno. È evidente l'influsso neoplatonico della teologia negativa di Plotino su quest'ultima fase dell'idealismo di Fichte, che voleva comunque essere per lui solo un approfondimento e non una revisione. Le Lezioni sulla missione del dotto Al dotto è affidata una missione: egli, che ha raggiunto il culmine della sapienza, è per questo stesso obbligato, moralmente e responsabilmente, poiché egli per la sua stessa perfezione culturale, è maggiormente cosciente di sé, non solo a diffondere il suo sapere tra gli uomini indotti, ma a presentarsi come esempio vivente di razionalità e moralità per tutti gli uomini. La dottrina e la scienza costituiscono parte essenziale della società, sono esse stesse sociali e quindi il dotto acquista quasi naturalmente il ruolo di educatore degli uomini come magister communis (maestro sociale). La filosofia politica La filosofia politica di Fichte nasce nel segno del giusnaturalismo e del contrattualismo. Lo scopo dello Stato è quello di educare tutti gli uomini alla libertà, realizzando una "società perfetta" nel senso di essere formata da uomini "liberi e ragionevoli" tanto da non aver più bisogno di essere governati. Lo scopo di ogni governo è infatti quello di "rendere superfluo" se stesso. Si noti come Fichte sia stato inizialmente attratto dalle teorie liberali del filosofo empirista inglese John Locke. Da questi Fichte, ispirato dagli eventi della Rivoluzione Francese, riprende la dottrina del diritto a ribellarsi ad un sovrano che non rispetti il patto sancito tra lui ed i cittadini: se lo Stato non compie la sua missione il contratto sociale è sciolto. Si avanza un nuovo concetto di libertà intesa estensivamente non più soltanto come quella che appartiene ad ogni individuo che agisca moralmente, (la libertà di scelta, secondo la morale kantiana) ma, come sostiene Fichte nell'opera sui "Fondamenti del diritto naturale", poiché le manifestazioni materiali dell'Io sono le azioni, in esse l'io esprime la propria libertà in una sfera di azioni possibili. La libertà per Fichte è quindi essenzialmente libertà di pensiero e di scelta. Come accade per la limitazione che l'Io assoluto subisce dal Non-io, lo stesso avviene per l'io empirico che vede la sfera delle proprie azioni possibili contrastata dalle azioni altrui. Da qui si origina il diritto come regolatore delle reciproche libertà.Perché si attui l'agire morale inteso come autodeterminazione, occorre per Fichte questa condizione: il diritto. Il diritto Il diritto riguarda la libertà considerata come fatto esteriore, oggettività, e non come atto interiore, soggettivo, nel suo aspetto morale di auto-realizzazione dell'Io. In questo senso, la libertà consiste nella presa di coscienza della propria indipendenza dagli altri. Questa avviene solo attraverso il riconoscimento della libertà altrui: l'uomo finito, infatti, può acquistare coscienza di sé e della propria indipendenza solo in relazione a una comunità di individui. Il diritto è tale se è garantito dallo Stato che innanzitutto dovrà assicurare al cittadino la sussistenza del proprio corpo; senza di esso e cioè senza la possibilità di disporre di mezzi materiali l'uomo non potrà usufruire degli originari diritti che gli appartengono per natura. Questo è dunque il dovere essenziale dello stato: assicurare a tutti corporeità e conservazione. Altri diritti naturali sono per Fichte la libertà ed il lavoro, dal quale deriva la proprietà. Lo stato commerciale chiuso Nell'opera successiva "Lo stato commerciale chiuso" lo stato assume un'ulteriore funzione integrativa che gli conferisce l'aspetto di uno stato socialistico. Lo stato deve innanzitutto garantire il lavoro su cui si basa il benessere e l'eliminazione della povertà. Per questo il governo interverrà d'autorità a stabilire i vari settori lavorativi in modo che il numero dei componenti non sia né superiore né inferiore alla quantità di beni prodotti: così avviene per gli artigiani e i commercianti, mentre il numero di lavoratori addetti alla produzione agricola si stabilisce automaticamente in base alla quantità di terre coltivabili. L'obiettivo è quello di rendere autosufficiente economicamente lo stato che si configurerà come stato commerciale chiuso in modo da eliminare i conflitti tra gli individui, le classi e gli stati. Perché questo accada occorre però che si realizzino tre condizioni: che lo stato * produca tutto quanto di cui ha bisogno, * distolga i cittadini dai beni che non può produrre, oppure imponga il monopolio nei casi d'importazione dei beni mancanti, * raggiunga i suoi confini naturali e che sia padrone delle terre che gli appartengono per natura. Se così non fosse esso è giustificato nel fare la guerra a chi usurpa le sue risorse naturali. I Discorsi alla nazione tedesca Nei Discorsi alla nazione tedesca, scritti quando ancora i francesi occupavano la Prussia dopo la vittoria napoleonica di Jena, Fichte sembra avanzare un progetto pedagogico teso al rinnovamento sia spirituale che fisico del popolo tedesco. Questa dottrina apparentemente educativa servì alla libera circolazione dell'opera di cui i francesi non identificarono la sua pericolosità politica. Questa nuova educazione deve essere un compito affidato al popolo tedesco che è l'unico tra tutti gli europei ad aver conservato intatte le sue caratteristiche nazionali originarie e naturali, ed inoltre era l'unica lingua priva di barbarismi e l'unico stato dove la religione non avesse influito sulla politica. Questo è comprovato dal fatto che la lingua tedesca è l'unica ad essersi conservata pura nel corso dei secoli mantenendo così intatta la cultura germanica. Questo non è avvenuto invece per l'Italia e la Francia dove la lingua, a causa delle dominazioni straniere, si è imbarbarita dando luogo a dialetti bastardi. Il popolo tedesco ha così conservato non solo la purezza della lingua ma anche quella del sangue e quindi della razza che li caratterizza come il popolo per eccellenza: lo stesso termine deutsch vuol dire infatti popolare o volgare, nel senso riferito al vulgus, il popolo appunto. Quindi i tedeschi sono gli unici ad avere un fattore unificatore spirituale e materiale che li caratterizza come razza, nazione. La stessa storia culturale della Germania con le grandi figure di Lutero, Leibniz, Kant dimostra la sua superiorità spirituale che ne fa un nazione eletta a cui è stato affidato il compito di espandere la sua civiltà agli altri popoli. E guai se essa fallisse! Si legge infatti nella XIV e ultima lezione, dal titolo "Conclusioni generali": «Perciò non c'è nessuna via di uscita: se sprofondate voi, sprofonda l'intera umanità, senza speranza di ripristinarsi in futuro»[2]. Il pensiero di Fichte verrà poi frainteso da Hitler, il quale istituì il pangermanesimo; in realtà Fichte parlò di primato culturale del popolo tedesco, e non di primato militare e bellico. Prof. Bertolami Salvatore

2 Prof. Bertolami Salvatore
Morale e politica Scopo della politica è la realizzazione del mondo morale “La vita dello Stato non è fra gli scopi assoluti dell’uomo … ma è un mezzo … per la fondazione di una perfetta società. Lo Stato, come tutti gli istituti umani che sono semplici mezzi, tende al suo annientamento: scopo di ogni governo è rendere superfluo il governo stesso.” Prof. Bertolami Salvatore

3 Diritto naturale e positivo
Diritto naturale, tendente ad elevare la spiritualità dell’Uomo verso la libertà assoluta Diritto positivo, tendente a guidare la comunità, con regole terrene, verso la finalità morale Prof. Bertolami Salvatore

4 Prof. Bertolami Salvatore
Stato e contratto Fondamento dello Stato è il contratto tra gli individui, esso si compone di tre parti: Proprietà, ciascuno pone la propria proprietà come pegno per il rispetto di quella altrui; Protezione, si difende la proprietà altrui come con l’impegno di reciprocità degli altri; Unione, la volontà di stare insieme a dimostrazione di un’innata socievolezza nell’Uomo. Prof. Bertolami Salvatore

5 Prof. Bertolami Salvatore
Moralità e religione Sfugge al contratto originario la dimensione intima e personale dell’interiorità: “L’essere umano si separa dall’essere cittadino, per elevarsi in assoluta libertà alla moralità; ma ciò è possibile soltanto se l’uomo passa attraverso lo Stato.” Il Cristianesimo assumerà una dimensione importante per la progressiva consapevolezza della natura spirituale dell’Uomo. Prof. Bertolami Salvatore

6 Prof. Bertolami Salvatore
Struttura dello Stato Potere esecutivo, che comprende al suo interno il potere di fare le leggi e quello giudiziario Eforato, potere di controllo dell’esecutivo ed espressione diretta della comunità. Esso è composto da cittadini periodicamente chiamati ad esprimersi sull’operato del governo, con possibilità concreta di rimuoverlo dall’incarico. Prof. Bertolami Salvatore

7 Prof. Bertolami Salvatore
Forme di Stato Democratiche, con varie formule per la partecipazione alla vita politica Stataliste, con forte centralità dello Stato nella vita politica, civile ed economica Prof. Bertolami Salvatore

8 Prof. Bertolami Salvatore
Forme di governo Monarchiche Repubblicane Democratiche pure (elezioni dirette) Democratiche miste (elezioni non tutte dirette) Aristocratiche pure (governanti cooptati) Aristocratiche miste (governanti cooptati ed eletti) … … Prof. Bertolami Salvatore

9 Prof. Bertolami Salvatore
Decisioni collettive Solo a larghissima maggioranza o meglio all’unanimità: Coloro che non sono d’accordo possono infatti sempre recedere dal contratto e in tal modo si realizza di fatto, con il loro allontanamento dalla comunità, l’unanimità. Prof. Bertolami Salvatore

10 Interventismo statale
Non solo a garanzia dei diritti dei singoli e della loro libertà, ma a regolare la vita economica produttiva e la distribuzione della ricchezza secondo principi egualitari Lo Stato attraverso i contratti collettivi e il controllo dei prezzi sul mercato tutela egualmente tutti i cittadini ed eleva il loro livello di vita (funzione morale e spirituale dello Stato) Prof. Bertolami Salvatore

11 Prof. Bertolami Salvatore
Le classi sociali Prof. Bertolami Salvatore

12 Prof. Bertolami Salvatore
Classi sociali Produttori o proprietari terrieri; Artigiani, intesi come operai che lavorano presso terzi e come botteghe artigiane che lavorano in proprio; Commercianti , che favoriscono la circolazione delle merci sotto l’egida dello Stato Prof. Bertolami Salvatore

13 Prof. Bertolami Salvatore
Commercio estero Gli scambi con l’estero sono sostanzialmente vietati o fortemente scoraggiati, poiché in passato sono sempre stati fonte di conflittualità e di guerre. Fortemente incoraggiate sono invece gli scambi culturali e scientifici per condividere e diffondere il benessere anche fuorui dal proprio territorio per migliorare i rapporti internazionali. Anche Fichte si dimostra favorevole alla pace perpetua kantiana fondata sulla federazione di Stati, che funzioni come arbitro internazionale e armata di una forza propria per imporre le proprie decisioni ai federati Prof. Bertolami Salvatore

14 Reggenza divina del mondo
Come nel mondo dei cieli, in terra sarebbe auspicabile una reggenza divina, retta da un uomo particolarmente colto e consapevole del proprio ruolo in grado di guidare verso la corretta metà la comunità (despota illuminato) Un governo non solo strettamente politico ma in grado anche di educare il popolo. “Discorsi alla nazione tedesca” Prof. Bertolami Salvatore

15 Riferimenti bibliografici
Versuch einer Kritik aller Offenbarung (Saggio di una critica di ogni rivelazione), 1792 Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre (Fondamenti dell'intera dottrina della scienza), versioni del 1794, 1798, 1801, 1804, 1810, 1812 Einige Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten (Lezioni sulla missione del dotto), 1794 Grundlage des Naturrechts (Fondamenti del diritto naturale), 1796 System der Sittenlehre (Sistema della dottrina morale), 1798 Bestimmung des Menschen (La missione dell'uomo), 1801 Philosophie der Maurerei. Briefe an Konstant (Filosofia della massoneria), Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (I tratti fondamentali dell'età presente), 1805 Anweisung zum seeligen Leben (Introduzione alla vita beata), 1806 Reden an die deutsche Nation (Discorsi alla nazione tedesca), Prof. Bertolami Salvatore


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